Il cinema italiano a lavoro

Niccolò Mugelli

Le trasformazioni riguardanti il mercato del lavoro in Italia nell’ultimo decennio si sono inevitabilmente riflesse anche nel cinema. Soggettisti e sceneggiatori intenzionati a trattare le problematiche legate al lavoro nella contemporaneità hanno dovuto affrontare nei loro testi i nuovi problemi sociali emersi: particolarmente rilevanti nella società e dunque anche nel cinema “impegnato” sono stati soprattutto disoccupazione e precariato.

Una panoramica dei recenti film italiani più significativi sul tema del lavoro.
“Il posto dell’anima” (2002) di Riccardo Milani. Narra la storia di tre amici operai in una fabbrica di pneumatici della CarAir, multinazionale statunitense. La sede italiana della multinazionale comunica agli operai l’imminente chiusura degli stabilimenti ed il conseguente licenziamento della manodopera. Scioccati, i circa 500 operai reagiscono organizzandosi in vari modi: presidiano la fabbrica, progettano di rivolgersi al Parlamento Europeo e di andare finanche negli Stati Uniti alla sede centrale per cercare di risolvere la questione proponendo un piano di ristrutturazione. Il caso passa dalle televisioni locali al Tg regionale fino ad acquisire risonanza nazionale. Raccontando le storie personali di alcuni operai, oltre alle azioni collettive, il film esprime le difficoltà di essere operaio al giorno d’oggi: persone che subiscono una perdita di ruolo e che sembrano godere di sempre meno diritti. Si trovano in una posizione scomoda: da una parte devono combattere per mantenere il posto di lavoro, nonostante questo si riveli spesso massacrante, dall’altra vorrebbero tornare al loro paese d’origine e fare qualcosa che davvero li realizzi.
“Tutta la vita davanti” (2008), di Paolo Virzì, si concentra, invece, sulle prospettive di chi si affaccia oggi al mondo del lavoro. Lo fa tramite la storia della giovane Marta, neolaureata in Filosofia col massimo dei voti. Umile e forse ingenua, non riesce a trovare impieghi all’interno del mondo accademico ed editoriale, ritrovandosi a fare la baby-sitter ad una ragazza-madre che la introduce nel call-center dell’azienda Multiple, specializzata nella vendita di un apparecchio di depurazione dell’acqua apparentemente miracoloso. Marta diventa così una telefonista come tanti altri ragazzi precari ed impara gradualmente, pur vergognandosene in parte, tutte le “tecniche” di convincimento per giungere a concludere un affare con gli interlocutori. Il film descrive in modo anche grottesco le caratteristiche di uno dei più tipici lavori “temporanei” svolto dai giovani italiani per mancanza di alternative. Il call-center è ritratto come un ambiente alienante ed assolutamente cinico. La protagonista subisce la forte delusione della ricerca infruttuosa di un’occupazione che soddisfi le aspettative di anni passati a studiare ed a prepararsi.
Con “Giorni e nuvole” (2007), Silvio Soldini descrive una situazione particolarmente critica: la difficoltà per un lavoratore di mezza età di ritrovare un impiego dopo il licenziamento. Elisa e Michele sono una coppia benestante che vive degli agi procurati dal lavoro di lui, imprenditore e socio di una ditta affermata. Lei, laureata, si occupa a tempo perso del restauro di un affresco. La loro vita scorre sui binari di una quotidianità rassicurante. Purtroppo, l’idillio domestico viene inesorabilmente incrinato dall’inaspettata confessione di Michele alla moglie: estromesso dalla società dai suoi soci, tra cui un suo vecchio amico, non riesce a trovare un altro lavoro che possa permettergli di mantenere il tenore di vita avuto sino a quel momento. La coppia è quindi costretta ad affrontare un percorso nuovo e difficile: via la casa lussuosa, la barca, le altre comodità, per arrivare, infine, a trasferirsi in una casa modesta in un quartiere popolare, con il pensiero costante di non farcela ad arrivare a fine mese. Mentre Elisa si dimostra capace di reagire alle avversità, trovando lavori part-time come telefonista in un call-center e segretaria, Michele si fa vincere dalla vergogna e dall’amarezza, vivendo il disagio della perdita del lavoro come una colpa. La sua difficoltà a svolgere anche lavoretti temporanei come ripiego lo porta a deprimersi, allontanandosi dalla moglie e dalla figlia. Il problema della disoccupazione in età adulta può risultare persino peggiore che in età giovanile – sembra suggerire il film – che sottolinea anche tutte le difficoltà legate ad una situazione di rapido impoverimento.
Con toni più leggeri rispetto ai titoli precedenti, “Generazione mille euro” (2009), di Massimo Venier, cerca di disegnare un ritratto dell’incertezza lavorativa ed esistenziale in cui vengono sempre più spesso a trovarsi i neolaureati italiani. Lo fa raccontando le storie di due amici e coinquilini molto diversi, un brillante laureato in matematica che non ha trovato impiego migliore di uno assai precario presso un’azienda di marketing ed un appassionato di cinema che sbarca il lunario lavorando come proiezionista in un cinema d’essai ed ha una vera mania per i videogames. Il tran tran quotidiano all’insegna della sopravvivenza che contraddistingue la vita di entrambi subirà un duro colpo quando, perse le sicurezze economiche di un terzo inquilino che li ha appena abbandonati con un debito, i due si trovano impossibilitati a continuare a pagare l’affitto. Verranno sfrattati dal loro appartamento ed il primo rischierà anche di perdere l’impiego. Lo scenario descritto dal regista è quello di una gioventù costretta a combattere quotidianamente con la mancanza di lavoro e di sicurezze, con titoli di studio che hanno perso il valore intrinseco di un tempo e stipendi sempre più magri. Il “galleggiare”, il vivere alla giornata rappresenta spesso, in questi casi, una costrizione, non una scelta dettata da immaturità.
Piuttosto diverso per gli argomenti affrontati rispetto ai precedenti, “Mi piace lavorare” (2004), di Francesca Comencini. Tratta il tema del mobbing e, più in generale, dei rapporti di lavoro. Il film è incentrato sulle vicende di Anna, impiegata da parecchi anni come segretaria capocontabile di un’azienda appena incorporata in un’altra di dimensioni maggiori. Nonostante le iniziali promesse di mantenere invariata la situazione dei dipendenti, la nuova filosofia aziendale impone loro, di fatto, la massima flessibilità, anteponendola a qualsiasi problema personale o familiare. Chi è in grado di adeguarsi conserva il posto. Verso gli altri, in particolare Anna, scatta invece una sottile strategia di persecuzione e mortificazione per rendere via via più impossibile una normale vita lavorativa. Lo scopo di questo “mobbing” è quello di tagliare il personale ritenuto in eccesso, creando le condizioni affinché i dipendenti indesiderati chiedano essi stessi il licenziamento. La protagonista si vedrà privata dei normali strumenti di lavoro, trasferita di continuo a mansioni differenti e sempre più ingrate, gradualmente isolata dai colleghi. Alcuni superiori la inviteranno apertamente a lasciare l’incarico. Alla fine, la donna troverà la forza di presentare una denuncia al sindacato.

Niccolò Mugelli
Collaboratore di Socialnews

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