Il fallimento della giustizia

Il rischio di mettere a morte una persona innocente resta legato in modo indissolubile alla pena di morte. Negli USA, sono più di 130 le persone che sono state rilasciate dal braccio della morte perché innocenti.

Nei Paesi nei quali viene applicata, la pena di morte è considerata uno strumento di giustizia. Tuttavia, così com’è inaccettabile uccidere una persona, è altrettanto inaccettabile che uno Stato possa compiere un omicidio premeditato e a sangue freddo. La giustizia non può e non deve essere sinonimo di vendetta e la pena di morte non può e non deve essere una giustificazione all’alto tasso di criminalità o all’incapacità dei governi di contrastare il crimine violento. Un’esecuzione è un atto irrevocabile, donne e uomini in vita sono scelti e messi a morte. E se per una questione di principio la pena di morte è sempre sbagliata, lo è ancora di più quando esistono fattori che evidenziano il fallimento del sistema giudiziario.

La realtà dell’omicidio di stato è macchiata da discriminazione, processi iniqui e confessioni estorte sotto tortura, minorenni condannati e messi a morte e dal rischio, sempre presente, di uccidere un innocente. Il 9 ottobre 2010, Troy Davis ha compiuto 42 anni, metà dei quali passati in un braccio della morte della Georgia, USA. Nel 1989, è stato condannato a morte per l’omicidio dell’agente di polizia Mark MacPhail. Troy Davis si è sempre dichiarato innocente. Il processo si è basato interamente su deposizioni incongruenti, in seguito ritrattate. Dei nove testimoni che lo hanno accusato, sette hanno cambiato la propria versione dei fatti denunciando pressioni della polizia affinché firmassero dichiarazioni contro l’imputato. Degli altri due, uno è l’altro sospettato e il secondo è certo solo del colore della maglietta indossata dall’assassino. L’arma usata per l’omicidio non è mai stata ritrovata e non esiste nessuna prova fisica che leghi Troy Davis al crimine. Viene da chiedersi come mai, in presenza di così tanti dubbi, si sia arrivati ad una condanna a morte, confermata più volte in appello. La risposta è in un dettaglio non trascurabile: Troy Davis è afro americano, Mark MacPhail era un poliziotto bianco e, nel 1989, l’intera comunità di Savannah era sconvolta dall’omicidio ed esigeva un colpevole a tutti i costi. Negli USA, è ormai dimostrato che la razza costituisce un fattore cruciale per determinare chi viene condannato a morte.

Tre semplici percentuali sono sufficienti per avere consapevolezza del fenomeno: in questo Paese, la popolazione afro americana è pari al 12%, ma nel braccio della morte gli afro americani sono il 42%. Se poi consideriamo anche i condannati a morte prosciolti perché innocenti, questo dato sale al 51%. Troy Davis è stato per ben tre volte a un passo dall’esecuzione. Queste le sue parole: “Negli ultimi due anni, ho dovuto prepararmi a morire e ho vissuto il tormento di dire addio alla mia famiglia per tre volte. So che potrei vivere ancora una volta questo trauma, ma non lo augurerei mai a nessuno, nemmeno al mio peggiore nemico. E sapere che sono innocente non fa altro che rendere molto più difficile affrontare questa ingiustizia”. Nel corso di questi anni, Davis si è visto negare ripetutamente la possibilità di presentare nuove testimonianze che avrebbero potuto scagionarlo. Nel 2009, la Corte suprema ha finalmente concesso una nuova udienza. Non un nuovo processo, ma un’udienza probatoria, nella quale Davis resta presunto colpevole e ha l’onere di dimostrare la sua innocenza. Esattamente il contrario di quanto accadrebbe in un nuovo processo, dove si godrebbe della presunzione di innocenza, lasciando allo Stato l’onere di dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, la colpevolezza alla giuria. Il 24 agosto 2010, la Corte ha stabilito che Davis non è riuscito a dimostrare chiaramente la sua innocenza, sebbene la stessa Corte abbia anche ribadito che è incostituzionale mettere a morte una persona innocente.

Dal punto di vista legale, il caso di Davis è molto complesso, ma è probabile che si riesca a ricorrere in appello, nonostante la possibilità che venga fissata a breve una quarta data di esecuzione. Il rischio di mettere a morte una persona innocente resta legato in modo indissolubile alla pena di morte. Negli USA, sono più di 130 le persone che sono state rilasciate dal braccio della morte perché innocenti. Diversi altri condannati, invece, sono stati messi a morte nonostante la presenza di forti dubbi sulla loro colpevolezza. Una difesa legale inadeguata, le false testimonianze e le irregolarità commesse da polizia e accusa sono tra i principali fattori che determinano la condanna a morte di un innocente. In altri Paesi, il segreto di Stato che circonda la pena capitale impedisce una corretta valutazione di questo fenomeno. In Arabia Saudita sono frequenti i processi iniqui, spesso svolti in una lingua sconosciuta all’imputato. In Cina e in Iran, in molti casi, le confessioni sono estorte sotto tortura. Amnesty International riconosce il diritto e la responsabilità dei governi di portare davanti alla giustizia coloro che commettono reati e non giustifica in nessun modo i crimini commessi. Tuttavia, ritiene che la pena capitale rappresenti l’ultima punizione crudele, inumana e degradante e si oppone ad essa in modo incondizionato. Attraverso la recente Giornata mondiale contro la pena di morte, dedicata proprio agli USA, il mondo abolizionista ha evidenziato il fallimento del sistema giudiziario di questo Paese, un sistema percepito invece da molti come efficace e privo di errori. Il caso di Troy Davis, uno tra i tanti, dimostra esattamente il contrario.

Christine Weise
Presidente della Sezione Italiana di Amnesty International

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