La legge bavaglio

Il giornalismo investigativo pone come pietra angolare della sua attività l’indipendenza del giornalista dalla sua fonte. Questa indipendenza non è solamente un fatto etico o deontologico, ma assume che il giornalista abbia le metodologie, le capacità e gli strumenti per investigare in autonomia gli eventi di cui vuole dare notizia.

Il disegno di legge 1611, più comunemente noto come “legge bavaglio”, rappresenta il punto apicale di un articolato processo di compressione della libertà di stampa nel nostro Paese. Ricordo brevemente gli aspetti “tecnici” del disegno di legge che riguardano più strettamente i giornalisti: in primis, l’articolo 27, noto anche come emendamento “D´Addario”. In base a questa norma, un cittadino, a meno che non sia un agente dei servizi di intelligence o un giornalista (professionista o pubblicista), rischia da 6 mesi a 4 anni di carcere se effettua riprese o registrazioni nascoste di conversazioni a cui partecipa o comunque effettuate in sua presenza. E veniamo al bavaglio alla stampa, un diritto violato per tutti, giornalisti ed editori che non possono più fare il loro lavoro e lettori che non possono più essere adeguatamente informati. Con la nuova legge, il giornalista che pubblica atti di indagine prima della fine dell’udienza preliminare, anche se non più coperti da segreto istruttorio, è punito con l’arresto fino a 30 giorni o con l´ammenda da 1.000 a 5.000 euro. Per quanto riguarda le intercettazioni, invece, attualmente, se il giornalista pubblica delle intercettazioni coperte da segreto istruttorio, rischia un mese di carcere evitabile pagando 281 euro di ammenda. Sono altresì previste multe per gli editori. Con le norme future, il giornalista non potrà più pubblicare atti delle inchieste in versione integrale fino al termine dell’udienza preliminare. Le intercettazioni, invece, non potranno essere pubblicate, né integralmente, né in forma di riassunto, fino al processo. Nel caso in cui il cronista infrangesse questo articolo di legge, rischierebbe un mese di carcere commutabile in una sanzione pecuniaria di 10.000 euro. Gli atti delle indagini, invece, potranno essere pubblicati, non tra virgolette, ma solo con un riassunto.

Per gli editori sono invece previste maxi-multe: da 25.800 a 309.800 euro in caso di atti giudiziari riservati, (incluse le intercettazioni relative alle indagini), ma la sanzione schizza fino a 464.700 euro, se si tratta di intercettazioni destinate alla distruzione. Facile capire quali siano i limiti imposti all’attività di cronaca giornalistica dal decreto in questione. Ma per quanto riguarda il giornalismo d’inchiesta? È ammissibile considerare come giornalismo d’inchiesta quello che deriva in buona parte, se non del tutto, da intercettazioni avute in maniera confidenziale, in violazione del segreto istruttorio? O anche, più semplicemente, da rapporti, o relazioni tecniche, ottenuti dall’autorità giudiziaria o da organi di polizia giudiziaria? Il giornalismo investigativo, nella sua matrice anglosassone, pone come pietra angolare della sua attività l’indipendenza del giornalista dalla sua fonte. A maggior ragione, quello d’inchiesta. Questa indipendenza non è solamente un fatto etico o deontologico, ma assume che il giornalista abbia le metodologie, le capacità e gli strumenti per investigare in autonomia gli eventi di cui vuole dare notizia. Mi spiego meglio. Esiste in Italia un “giornalismo di richiesta” che consiste nel seguente protocollo: sono un giornalista di un noto quotidiano e/o periodico. Mi creo una serie di fonti di supporto che mi passano la documentazione relativa alle inchieste che mi interessano. Quando accade qualcosa, le mie fonti mi passano le carte, io le traduco in un Italiano piano per il giornale et voilà il gioco è fatto. Naturalmente, quando la fonte chiede di sottolineare certe inchieste da essa avviate o di fornire una particolare declinazione o connotazione, ovviamente mi presterò al gioco. In fondo, nessuno morde la mano da cui mangia. Riassunto in maniera forse semplicistica, ma sicuramente chiara, questo “giochino” o, per dirla alla Di Pietro, questa “dazione ambientale” è alla base di tante “inchieste” giornalistiche. Parlo anche per esperienza diretta, ovvero per i racconti dei tanti testimoni, giornalisti e non (inclusi magistrati e membri delle forze dell’ordine). Probabilmente, è proprio il “giornalismo di richiesta”, piuttosto che quello di inchiesta vero e proprio (per esempio, quello di Report), ad essere colpito dai vincoli posti dal ddl sulle intercettazioni. Il giornalismo di inchiesta, infatti, ha poco da temere da questi vincoli.

Certamente, avere dei documenti in meno non fa piacere a nessuno. Ma posto che il giornalista di inchiesta (e non il giornalista di richiesta) possiede una vasta serie di elementi documentali e di metodologie, il venir meno dell’accesso alla documentazione di una componente delle fonti non costituisce un danno insuperabile. Prima di continuare il mio discorso, vorrei premettere che non sto dicendo in alcun modo che si debba fare a meno delle carte giudiziarie o, ove possibile, dei rapporti, riservati o meno, ricevuti dall’ufficiale della finanza , del ROS, o di qualche fonte dell’intelligence. Ben vengano, ove ve ne sia la disponibilità, ma sempre fatta salva la capacità del giornalista di avere una sufficiente autonomia di conoscenze ed indipendenza di giudizio da non diventare la semplice cinghia di trasmissione o il megafono dei soggetti che erogano i documenti. Faccio esempi pratici e chiari. Un caso lampante? Pensiamo alle inchieste di Fabrizio Gatti. Settimane passate come infiltrato dentro il CPT di Lampedusa, dentro i campi dei raccoglitori clandestini di pomodori. Vogliamo andare indietro nel tempo ed individuare esempi illustri di tale attività di “infiltrazione”? Possiamo citare il lavoro di uno dei capostipiti del giornalismo investigativo americano (i famosi muckrakers), Upton Sinclair. Prima di scrivere il suo romanzo inchiesta ”The Jungle”, sulle drammatiche condizioni igienico-sanitarie dei macelli di Chicago, si fece assumere come lavoratore da uno di questi macelli e ci rimase per settimane. In breve, il vero giornalismo di inchiesta spesso anticipa e non segue le attività di indagine di magistratura e forze dell’Ordine. I metodi ci sono. A volte sono radicali ed estremi, come quello di Gatti. Altre volte si basano sull’uso di un metodo di analisi dei fatti e di strumenti raffinati di ricerca delle informazioni come il FOIA, Freedom of Information Act. È il caso di Paolo Cucchiarelli, che si è avvalso, per il suo libro su Piazza Fontana, di uno scrupoloso lavoro d’archivio e di una sistematica attività di ricerca attraverso il FOIA di documenti declassificati dell’Intelligence americana. Altri metodi sono legati all’uso delle telecamere nascoste (vedi l’uso che ne viene fatto dai giornalisti di Report, in primis Sabrina Giannini), altri dall’uso delle tecniche di CAR, Computer Assisted Reporting o di analisi delle fonti aperte. Tornando al ddl, quindi, l’unico “vulnus” serio che intravedo per il giornalismo di inchiesta è quello dell’articolo 27, che impedisce ai giornalisti non iscritti all’ordine di effettuare riprese nascoste. Tenendo presente che molti freelance non sono iscritti agli albi professionali, questo limita le loro possibilità di indagine. In conclusione, la legge bavaglio riduce sicuramente gli spazi di agibilità della cronaca giornalistica e del diritto ad essere informati. Ma, forse, può diventare lo stimolo involontario per un giornalismo meno pigro e più indipendente dalle fonti.

Leonida Reitano
Presidente di AGI – Associazione di Giornalismo Investigativo

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