Giuseppe Maria Longoni
È più facile separarsi che unirsi, ma di certo i fondatori dell’Unione non immaginavano ci sarebbero voluti più di sessant’anni per approdare ad una certa solidità oggi rimessa in discussione dalla crisi politica, economica e sociale. Siamo sull’orlo del baratro?
Tra il 22 ed il 25 maggio, nei 28 Stati membri dell’Unione (i 27 del 2009 a cui si aggiunge ora la Croazia) si svolgeranno le elezioni del Parlamento Europeo. Si tratta di quasi 390 milioni di potenziali elettori. In base al Trattato di Lisbona, il numero complessivo dei parlamentari dovrebbe salire a 751 e per la prima volta si terranno dei confronti televisivi tra i candidati alla presidenza del Parlamento. Il Parlamento Europeo avrà un peso molto più forte nella nomina del Presidente della Commissione Europea e nelle decisioni fondamentali sulla regolazione del mercato unico e sulla legislazione civile. In tal modo, il Parlamento Europeo si rafforza nel suo ruolo di colegislatore, assieme agli organismi degli Stati nazionali, al Consiglio ed alla Commissione, attenuando la debolezza strutturale che segnava tale istituzione fin dalla sua nascita nel 1979.
Tuttavia, l’attesa di questa consultazione è carica di preoccupazioni. Le principali famiglie politiche europeiste Ppe (popolari), PSE (socialdemocratici), ALDE (liberali) e Verdi, alle quali, forse, si aggiungerà una voce radicale di sinistra di europeisti critici, sono ora minacciate da altre formazioni animate da un forte euroscetticismo: nazionalisti, populisti, autonomisti, che contestano l’idea stessa di Europa unita, chiedono il ritorno pieno delle sovranità nazionali e non fanno mistero della loro volontà di indebolire, contrastare o, addirittura, fermare l’integrazione.
Certo, lo scontento verso le performances europee è evidente: sotto i colpi della crisi finanziaria del 2007/2008 e negli scenari della globalizzazione da tempo in atto, il sistema economico arranca, dove più e dove meno, e tende alla stagnazione, col suo corollario obbligato, l’alta disoccupazione. Ciò anche per gli orientamenti prevalenti nel sistema bancario e nella stessa BCE, tuttora dominati dalla filosofia “tedesca”, che vede nell’inflazione l’incubo permanente e dunque genera un quadro deflattivo. Le distanze tra Paesi forti e Paesi deboli dell’Unione non sembrano attenuarsi e la competizione con le grandi potenze, USA, Cina, Russia, ecc. è impacciata dalla carenza di una vera politica comune. Queste difficoltà hanno avuto un riflesso preciso nella disaffezione degli elettori: la quota dei votanti, nelle sette consultazioni effettuate finora, è progressivamente calata e si attesta quasi ovunque su livelli prossimi alla metà degli aventi diritto, o anche meno.
Nelle rappresentazioni più fosche si paventa la crisi dell’Unione, l’esaurimento della Democrazia al suo interno, il ritorno di logiche nazionaliste e autoritarie.
Un quadro così cupo richiede di essere esaminato con le lenti e gli strumenti dell’analisi storica, anche per relativizzarlo, considerando il processo di integrazione nel lungo periodo.
Conviene, forse, rammentare la profezia espressa da Robert Schumann il 9 maggio 1950, in occasione del lancio della CECA: “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto.”
In effetti, l’unico processo aggregativo sovranazionale in atto oggi nel mondo cammina da oltre sessant’anni a passi esasperatamente lenti e spesso contrastati, molto più di quanto immaginato dai “Padri fondatori”, federalisti come Altiero Spinelli o funzionalisti come Jean Monnet e lo stesso Schumann.
Non va dimenticato che la prima fase del processo di integrazione, quella della CECA, dell’EURATOM, del MEC si svolse tutta all’interno di quel periodo storico eccezionale chiamato dal sociologo Fourastié “les trente glorieuse”, l’età dell’oro, la straordinaria epoca di progresso per l’Occidente “avanzato” all’interno dell’egemonia statunitense.
Fissati i pilastri della Comunità economica ed impostata una comune politica agricola e doganale, ci sono voluti decenni per la realizzazione del mercato unico. Dapprima ci fu la ritrosia del generale De Gaulle, cantore dell’”Europa delle Patrie” e contrario all’adesione britannica; negli anni ’70 delle crisi energetiche e del tramonto dell’età aurea, si ebbero l’adesione britannica, irlandese e danese, l’istituzione del “serpente monetario”, quindi l’elezione del Parlamento; il decennio successivo vide l’adesione di Grecia, Spagna e Portogallo, liberatisi dei regimi autoritari e nazionalisti, ma anche l’”eurosclerosi” e l’antieuropeismo di Margareth Thacher, forse ancora persuasa, in fondo, che “wogs begin at Calais”, come molti britannici conservatori prima di lei.
Il decennio1985-1995 fu caratterizzato dal triplice mandato come Presidente della Commissione di Jacques Delors, il cristiano-socialista interprete dello slancio europeista delle due correnti politiche che con più continuità si sono impegnate nel far avanzare il processo di integrazione: il ruolo della Commissione fu molto rafforzato e nell’86 fu siglato l’Atto unico dei 12 aderenti, che abbozzava l’unione economica e monetaria, poi precisata negli obiettivi e nei requisiti col Trattato di Maastricht del 1992. Quest’ultimo sancì anche la cooperazione in materia di giustizia, affari interni e questioni ambientali. Poi aderirono Austria, Finlandia e Svezia e nel 1999 fu introdotta la moneta unica, l’Euro.
Furono anche gli anni del collasso del sistema sovietico che scongelava i Paesi dell’Europa orientale dai vincoli degli interessi della grande potenza e li candidava ad aderire all’Unione, ponendo, tuttavia, nuovi e gravi problemi di avvicinamento tra contesti economici, sociali, politici e culturali profondamente diversi tra loro. Nuovi Stati candidati, quasi cento milioni di persone il cui reddito andava circa raddoppiato per raggiungere gli standard comunitari, compito gigantesco e, ovviamente, fermamente contrastato da coacervi di interessi contrari. Peraltro, anche gli Stati Uniti d’America, inizialmente sostenitori o benevoli osservatori del processo di integrazione, hanno negli ultimi tempi manifestato atteggiamenti orientati ad una perplessità di fondo, specie nei confronti della moneta unica.
Molto contrastate anche le intricate vicende che hanno accompagnato la redazione della Costituzione europea: firmata a Roma nel 2004, ma bocciata dai referendum francese e olandese nel 2005, è approdata al più cauto Trattato di Lisbona, firmato dai capi di Stato e di Governo il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore nel 2009, che ha recepito solo alcune delle innovazioni enunciate nella Costituzione. Un rallentamento che nel 2010 ha spinto esponenti liberali e verdi a costituire il Gruppo Spinelli per rilanciare un processo più compiutamente federale rafforzando il ruolo del Parlamento e della Commissione contro le spinte degli Stati nazionali.
Su tutto il processo si è, infine, abbattuta la drammatica crisi finanziaria del 2007/2008. Questa ha fortemente intaccato le aspettative di milioni di cittadini europei, o aspiranti tali, che l’Europa unita fosse in grado di garantire un presente o, almeno, un avvenire di maggior benessere e stabilità.
Come si vede, una marcia alternata, nella quale, a momenti di avanzata e successo, seguono periodi di stallo o, addirittura, di subitanei arretramenti, dove le certezze di ieri si trasformano in dubbi e laceranti dilemmi.
E tuttavia la marcia continua: secondo le rilevazioni del servizio ufficiale della Commissione, Eurobarometro, molti abitanti dei vari Paesi non si sentono cittadini europei, né si sentono ben rappresentati dalle istituzioni comunitarie e detestano la Banca centrale europea. Nello stesso tempo, però, non vedono alternative alla moneta unica e sperano in una politica economica, estera e di sicurezza comune.
È forse opportuna una considerazione di ordine storico generale: mentre i processi secessionisti sono rapidi e per realizzarli bastano pochi atti bellicosi e decisi, quelli di tipo federativo sono lenti e tortuosi: basterà pensare agli Usa, unificati davvero solo dopo la Guerra civile, o alla Germania, che realizzò l’unità nazionale dagli anni Venti dell’800 al 1870.
Intendiamoci: l’Europa non sarà mai uno Stato, né è stata pensata per esserlo. Lo sa e, infatti, tra i suoi motti c’è “In diversitate concordia”, la diversità assunta come valore di arricchimento reciproco. Quasi tutti gli europeisti sono ora concordi nell’affermare che l’Europa può procedere solo cambiando, diventando più politica e sociale, non limitandosi a risposte di austerità, favorendo la ripresa e l’integrazione.
Agli Europei conviene, forse, acconciarsi ad assumere l’atteggiamento di Robinson Crusoe, il figlio dell’agiato mercante che ha lasciato una vita di mediocrità per un grande ideale, vedere il mondo e navigare: naufraga su un’isola deserta e sperduta e medita sulla sua disgrazia; al contempo, tuttavia, il suo spirito pragmatico lo spinge a valutare la sua condizione nel complesso: è vivo, ha da mangiare, la nave, incagliata di fronte a lui, è carica di oggetti e utensili che gli permetteranno di ristorarsi e costruirsi un’imbarcazione. La navigazione di Robinson riprenderà.
Giuseppe Maria Longoni
Ricercatore confermato e professore di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Milano