L’evasione impossibile

Sante Notarnicola, trentuno anni «nelle mani del nemico», per usare una locuzione di quegli anni, considera il libro e la scrittura come figure centrali nello sviluppo delle rivendicazioni e delle lotte che animarono le strutture di detenzione tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta.

Incontro Sante un giovedì pomeriggio, nel suo pub di via del Pratello, a Bologna. L’occasione nasce per parlare del ruolo che hanno la lettura e la scrittura all’interno delle carceri. Sante Notarnicola, trentuno anni «nelle mani del nemico», per usare una locuzione di quegli anni, considera il libro e la scrittura come figure centrali nello sviluppo delle rivendicazioni e delle lotte che animarono le strutture di detenzione tra la fine degli anni ‘60 e gli anni ‘70. Un’esperienza particolare, la sua: l’arresto di Sante e dei suoi compagni, avvenuto nel 1967, giunse alla fine di una vicenda particolarmente drammatica per il tempo. L’opinione pubblica, i giornali borghesi, persino il cinema (è il caso del regista Carlo Lizzani con il suo Banditi a Milano) non tardarono a condannare preventivamente Sante e i suoi compagni. Dopo otto mesi passati in isolamento, Sante venne trasferito insieme agli altri detenuti. Qui scoprì il carcere vero e proprio, i suoi riti, i suoi simboli, un mondo alla rovescia, dove ciò che fuori dalle mura ha valore, all’interno delle stesse è oggetto del massimo disprezzo. Comunque, da una guardia venne a sapere che la direzione aveva deciso che, facendo richiesta scritta, si sarebbe potuto avere accesso alla biblioteca e, quindi, ai libri. Erano romanzetti, storie di santi: la biblioteca non era un gran che. La lettura di quei libri fu, comunque, di aiuto a Sante. La marea di reati attribuitigli, la prospettiva di trascorrere tantissimi anni in carcere, l’aggressione del film di Lizzani che lo dipingeva per quello che non era, avevano contribuito a generare in Sante una condizione psicologica che lo aveva portato, con lucidità, a ragionare sull’opportunità di continuare a vivere in quella condizione. Con il ‘68 arrivò un cambiamento. Ciò che stava accedendo fuori cominciava a influire anche sulla realtà del carcere. I partiti di sinistra iniziavano ad entrare nelle carceri. Si abbandonò, quindi, la biblioteca interna e cominciarono ad entrare i giornali, anche se censurati. I primi numeri di Lotta Continua, mi racconta Sante, entravano come poteva entrare un coltello, in clandestinità. Si iniziava anche a chiedere dei libri particolari. Dopo una delle prime rivolte di San Vittore, a cui partecipò «immediatamente d’istinto», Sante venne trasferito a Volterra. Qui si trovò a contatto con una realtà completamente diversa. Se San Vittore era un carcere di città, e si era, chiaramente nei limiti, ancora a contatto con una realtà cittadina, Volterra significava invece essere reclusi in una fortezza medicea del ‘300. Dopo cinque o sei mesi di isolamento, Sante fece la conoscenza degli altri detenuti. C’era gente della banda Giuliano, gente che aveva già fatto quarantacinque anni di carcere. Lì, mi racconta, Sante cominciò a scrivere per riordinare le idee in vista del processo d’appello. Gli altri reclusi iniziarono così ad avvicinarlo. L’analfabetismo era molto alto, soprattutto tra la gente del sud. Andavano da lui perché “estraneo”, alieno ai loro paesi, ai loro giri; andavano da lui per farsi scrivere le lettere alle mogli e alle fidanzate. Mi dice Sante che gli piaceva: ci metteva del suo, e gli sembrava anche di aiutarli a rinverdire certi meccanismi elementari di socialità che erano stati sepolti da tanti anni di galera. Si venne così a creare un gruppo che cominciò a chiedere libri, a desiderare un libro particolare, che dei libri voleva parlare. Una delle prima cose che ottennero fu di far togliere la censura ai giornali e che si potessero ricevere libri e giornali dall’esterno. Ad aiutarli in questo erano i compagni di Lotta Continua e di Potere Operaio. Tra i libri più richiesti c’era Il manifesto del partito comunista, minimo strumento adatto ad instaurare un discorso collettivo che permettesse loro di misurarsi. Poi c’erano i libri delle Pantere Nere, di Bobby Seale in particolare. Erano gli anni di Attica, città degli Stati Uniti nel cui penitenziario una manifestazione di neri era stata repressa nel sangue di trentatré detenuti. I Dannati della Terra, di Frantz Fanon, era un altro libro molto richiesto. L’autore era stato portavoce del FLN durante la guerra d’Algeria. La sua tesi si basava sull’evidenza che ladri, spacciatori, lenoni avessero dato, nella lotta contro i Francesi nel centro di Algeri, un contributo importantissimo. Per Fanon, quindi, non si nasceva delinquenti, era l’ambiente a determinare il destino dell’uomo. Se si fosse concessa una possibilità di riscatto, si sarebbe potuto scoprire che esisteva rettitudine anche nel peggiore criminale. Questa posizione, secondo Sante, fu fondamentale per aggregare le persone, vincendo quel soggettivismo che, nel carcere, conduceva spesso alla sconfitta. Era necessario agire in gruppi, essere sempre di più, creare una forza che fosse collettiva ed incisiva. Attraverso lo studio, si cominciò a stilare dei programmi, a chiedere determinate cose. Il libro fu centrale: forniva gli strumenti per conoscere ed agire. Nel ’71, tornato a San Vittore, Sante affrontò il processo d’appello. In aula disse di non essere interessato ai codici, agli anni di detenzione che gli avrebbero dato: voleva solo sapere che tipo di carcere avrebbe affrontato. A quelle condizioni, «NOI non ci stiamo». Si iniziava a pensare in maniera collettiva. L’intervento era stato preparato con l’aiuto di altri ragazzi. Sante scoprì così gente intelligente, che in seguito avrebbe cominciato a divorare libri e a scrivere. Questo intervento fece epoca, sia sui giornali, sia tra i collettivi, e fu la base per creare, insieme a Lotta Continua, l’organizzazione dei “Dannati della terra”. Era nato quel movimento che nel ‘75 avrebbe ottenuto la riforma del regolamento penitenziario. Non si era mai visto un movimento «prigioniero» autore di una conquista del genere. Le loro lotte avevano influito sul Parlamento e sugli uomini di buona volontà che avevano dato loro ragione. Era stato raggiunto l’apice, il massimo a cui si potesse ambire nell’ambito di una riforma. Nel carcere di Alessandria, in seguito ad una fuga, ci fu un’irruzione e morirono sette persone, tra le quali anche maestri ed infermieri. Questa era la risposta che aveva dato lo Stato. Iniziò un’altra fase. Le parole d’ordine, ribadite all’esterno da Lotta Continua, divennero estremiste: «il carcere si abbatte, non si riforma». All’interno del carcere, dice Sante, faceva presa una coscienza più rivoluzionaria, che cominciava a legarsi alla lotta armata dell’esterno. Alessandria era strage di Stato, si inseriva nel solco inaugurato da piazza Fontana. Non era più sufficiente la riforma. Nasceva la storia dei Nap, più significativa di quella delle Br perché più ricca di determinazione, solidarietà, unione. Chi stava fuori lottava per i compagni che stavano dentro. Il libro significava, in quel momento, comprensione dei problemi, strumento per crescere. I libri circolavano, dice Sante, «i parenti e i librai ce li passavano. Non ce li fecero mai mancare. Negli ultimi anni avevo rapporti con l’Einaudi, con Primo Levi che ci mandò tre pacchi di libri sproporzionati, ma proporzionati alla sete di lettura che avevamo». Anche la scrittura ha avuto un ruolo fondamentale nell’esperienza carceraria vissuta da Sante. In particolare, la poesia, che gli permetteva immediatezza d’espressione. Lotta Continua pubblicava le poesie di Sante, spesso sintesi della condizione che viveva. Sante conclude la nostra discussione ribadendo il motivo conduttore del nostro incontro: certe esperienze, all’interno del carcere, sono irripetibili. Troppo diversa è la società dei nostri giorni da quella che, in quegli anni, dava appoggio alle lotte di chi stava dentro. «Noi avevamo coscienza, avevamo capito che se non riuscivamo a comunicare non raggiungevamo nulla. Fondamentale era il volantino di rivendicazione. Alla direzione, ai compagni fuori, ai giornalisti amici, anche nei giornali borghesi. Noi abbiamo lavorato molto su questo terreno. Abbiamo prodotto molta letteratura, libri, documenti. Dal carcere siamo stati in grado di produrre cultura… Oggi queste cose sono scomparse, bisognerebbe fare rivivere certe cose».

Giuseppe Peratoni
Storico e scrittore

Sante Notarnicola
ex detenuto

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