“Un’ esperienza di laboratorio teatrale con utenti della salute mentale e una scuola elementare”
“I Natimatti per le storie” si mettono in cammino con il loro baule da viaggio, da cui escono fiabe e storie di tutti i generi. “Non si può vivere senza le storie!” sono soliti ripetere. Nasce allora l’esigenza di trovare chi le ascolti, incontrando i bambini di una scuola elementare. Fondamentale diventa l’invito a partecipare ad un’esperienza reale, nella quale, attraverso danze, canti, espressione corporea e creazione di oggetti fantastici, la parola diventa concreta, nelle ambientazioni fantastiche in cui il gioco si fa espressione del testo narrativo. Si sviluppa un ponte, fra narratori ed ascoltatori, che permette di incontrarsi su ciò che c’é di più prezioso e qualificante: il pensiero, quale facoltà di elaborazione attiva. Ma, soprattutto, nasce un luogo di azione, che inizia dal corpo di chi parla e arriva diretto a quello di chi ascolta. La fiaba è ricca di contenuti, ma si astiene dal predicare, dall’istruire. I bambini accolgono con accettazione spontanea la relazione interpersonale attraverso la fiaba, la quale, come il sogno, sfugge al severo controllo della coscienza. Insieme si avvia la ricerca di “novità” personali, nuovi percorsi fattibili, parole che aprano orizzonti inesplorati o riscoperti. Gli adulti si preparano all’incontro narrativo coltivando un senso di responsabilità e rielaborazione personale notevole, che stupisce per la fedeltà all’impegno e al percorso nei ritmi e nelle scadenze. L’incontro avviene sempre in un contesto dove i bambini hanno un forte senso di rispetto e valorizzano gli adulti per il lavoro compiuto, manifestano partecipazione entusiasta e senso dell’avventura e della scoperta in ogni momento. Partecipano con rielaborazioni e testi personali: filastrocche, storie, magie, in uno scambio continuo. Il corpo ha parte attiva nell’espressione delle emozioni in gioco, il testo prende vita, la parola scritta diventa incredibilmente reale, perché vissuta: è strumento di relazione. Tutto ciò si traduce in un’integrazione spontanea e in un sano rispecchiamento dei ruoli: è uno spazio libero di sperimentazione. Si produce allora un evento, una cerimonia, un rito collettivo che attiva la persona globalmente (si allargano orizzonti ed interessi, si recuperano abilità). Si sviluppa maggiore interesse per il mondo circostante, per la cura di sé, per gli altri, per le cose. È possibile nominare le emozioni in gioco, è possibile sperimentare un corpo nuovo e giocare più ruoli riconoscibili (non fissati, senza etichette) attraverso il divertimento. Questo produce benefici personali sul piano della comprensione, della tolleranza e della coesione all’interno del gruppo. Il rito collettivo diventa allora pubblico, esce dai luoghi istituzionali di provenienza (la scuola e i luoghi di cura), i simboli sono riconoscibili, si può presentare agli altri, diventa spettacolo in un teatro in cui la cittadinanza partecipa numerosa. Attraverso il rito, il gruppo esprime esteriormente la propria identità, ognuno rinnova il senso di appartenenza, si promuove l’unità e l’originalità della persona in un rapporto di arricchimento reciproco con lo spettatore che viene invitato a partecipare all’evento.
Elisabetta Biondelli
Infermiera del Dipartimento di Salute Mentale di Rimini