Il popolare come falsa rappresentazione dell’arcaico

Non musica popolare, ma musica arcaica; non letteratura popolare, ma letteratura arcaica. A caratterizzare queste espressioni non è l’ambiente sociale di germinazione; a caratterizzarle sono l’ambito arcaico di pertinenza e il codice orale con cui tali esiti comunicano e si trasmettono.

Usiamo spesso parole e locuzioni come folklore, musica popolare, letteratura popolare, espressioni popolari o folkloristiche, e non ci rendiamo conto che si tratta di neologismi, se si possono definire così termini che sono nati nella prima metà dell’800. In particolare, il termine folklore (pronuncia fouk-lóo) è stato coniato dallo studioso Ambrose Merton per uno studio da lui pubblicato nella rivista londinese Atheneum nel 1847. Ma non crediate che le altre locuzioni siano più antiche: se potessimo domandare a Luca Marenzio, Orlando di Lasso, Corelli o Bach cosa sia la musica popolare, ci guarderebbero con due grandi occhi vuoti: loro stessi appartengono al popolo (inteso come classi subalterne) e quella musica rappresenta la sua prima e fondamentale cultura. Il musicista, fra il ‘400 e Bach, è un figlio del popolo al servizio del principe e la cultura scritta è la sua seconda cultura, quella di cui si è dovuto impadronire per ben servire il principe, nella cappella profana o in quella sacra. Nella sua produzione scritta, il musicista non fa altro che travasare ed elaborare gli archetipi orali che desume dalla sua prima cultura, quella orale: pensate alla fresca vena orale che scorre in superficie nella villottistica, nella canzonettistica, nella frottolistica e nella ballettistica rinascimentale. Ma pensate anche a come quelle matrici orali si insinuino tentacolarmente nella produzione più raffinata dell’epoca, i madrigali, e come si insinuino perfino nel repertorio sacro: quante messe sono state scritte sul tema de L’Homme Armé? Pensate a quanti musicisti, da Corelli a Bach a Salieri, si sono cimentati sulla sarabanda di fonte orale mozaraba nota come La follia! Ma che musica popolare e musica popolare! Si tratta di archaiòi tìpoi, un magma ribollente e incontenibile che scorre sotto tutta la crosta del pianeta, che non conosce l’orografia, l’idrografia, i confini naturali e quelli politici, non risponde ai chi va là delle sentinelle, sopravvive alle stragi e ai genocidi, a volte mostra sul seno o cela sotto le pieghe le ferite letali, ma straordinariamente vive, come se anche la morte giovasse a tenerlo in vita.

Dire espressioni popolari è come dire che il mito di Medea, quello di Edipo o quello di Ulisse sono espressioni popolari, folklore, mentre all’evidenza si tratta di archetipi. Due esempi letterari e uno musicale. Nella mitologia greca, Teti, madre di Achille, immerge il bambino nelle acque dello Stige, rendendolo invulnerabile. Ma lo regge per il tallone, che non viene lambito dalle acque, e lì Paride gli conficcherà la freccia fatale. Nella Canzone dei Nibelunghi, la cui stesura è del XII secolo, ma la cui origine si perde nelle nebbie dell’Arcaico, Sigfrido uccide il drago ed asperge il proprio corpo col sangue di questo, diventando invulnerabile. Ma non si accorge che una foglia, staccatasi da un albero, gli si è posata su una spalla. Lì il sangue del drago non lo bagna. Su quella spalla, un traditore conficcherà la lancia fatale. Si tratta dello stesso archetipo, presente in area mediterranea e in area germanica, due mondi fra i quali chiunque sarebbe pronto a giurare che non c’è alcuna possibilità di scambio, di osmosi. Ma l’arcaico è un patrimonio indistinto dell’intera umanità e non conosce distinzioni etniche, barriere linguistiche e, in genere, culturali. Secondo esempio letterario: il soggetto che nell’opera di Costantino Nigra va sotto il titolo de L’eroina: una fanciulla va sposa ad un signore d’alto lignaggio, il quale la conduce lontano, verso il suo castello. Ad un certo punto, ella capisce, da certe parole del marito ed altri segni premonitori, che la propria vita è in grave pericolo ed è destinata a finire in modo imminente per mano di lui. Con abile finzione si fa consegnare la spada del signore e lo decapita. Il Nigra raccoglie in Piemonte questo esito letterario. Ma lo stesso esito lo troviamo in Francia, Spagna, Inghilterra, Finlandia, Ungheria. Esso, inoltre, rimanda alla storia del Castello di Barbablù e all’episodio biblico di Giuditta e Oloferne.
Altro che letteratura popolare!
Ed ora, l’esempio musicale:
Oh Susanna
Alleluja
Qui, direte voi, che attinenza ci può essere fra una canzone western e l’Alleluja della Messa? Ebbene, l’attinenza c’è, eccome! C’è uno stretto legame fra i due esiti, un legame d’ordine strutturale-linguistico. Prima di tutto, sgombriamo il campo dai pregiudizi. Oh Susanna non è affatto una canzone western, ma un esito di importazione, e precisamente un esito proprio dell’area gaelica (irlandese-scozzese) approdato nel continente americano al seguito dei suoi colonizzatori europei. E l’Alleluja della Messa è tale solo per avventura, o meglio, è tale solo perché, in un dato momento della sua esistenza, è stato rivestito con quella parola – alleluja – che lo ha consegnato al rituale cristiano. Nessuno può dirci attraverso quanti e quali rivestimenti letterari quell’esito è passato prima di presentarsi a noi come l’Alleluja della Messa. Non ci credete? Non credete alla genesi preistorica di questi due esiti musicali? Ebbene: pensate che Pitagora, fra il VI ed il V secolo a.C., studiava e definiva in termini rigorosamente matematici i rapporti intervallari della scala. Quale scala? La scala pentatonica di Oh Susanna e dell’Alleluja? No. La scala eptatonica, quella di cui ancora oggi ci serviamo. Ma Pitagora non conosceva solo le sette note. Conosceva le note cromatiche, sapeva che, partendo dalla nota che noi chiamiamo

La, per arrivare alla sua omologa Sol, bisognava percorrere un ciclo di dodici quinte. Poi, calcolava l’eccedenza del Sol sul La, il cosiddetto comma ditonico pitagorico. Se questa era la situazione della scala fra il VI ed il V secolo a.C., di quanti millenni dovremmo percorrere a ritroso il corso dell’evoluzione per rintracciare la scala pentatonica (cinque note) di Oh Susanna e dell’Alleluja? Sfido chiunque a dircelo. Non musica popolare, dunque, ma musica arcaica. Non letteratura popolare, ma letteratura arcaica. A caratterizzare queste espressioni non è l’ambiente sociale di germinazione (le classi subalterne, secondo un’etnomusicologia ancor oggi dominante). A caratterizzarle sono l’ambito arcaico di pertinenza ed il codice orale con cui tali esiti comunicano e si trasmettono. Una volta riconosciuta a queste espressioni la dignità dell’arcaico, noi le tratteremo con ben altro riguardo rispetto alla leggerezza spesso usata in passato, in particolare in quegli interventi che vanno sotto il nome di folk revival. Noi riconosceremo agli esiti orali, arcaici, la stessa dignità che riconosciamo al canto gregoriano, che è a sua volta di origine orale, e dal quale si differenziano solo per il fatto che i méloi gregoriani, in una certa epoca storica, si sono fissati nella forma documentale, scritta, e nella funzione liturgica sotto il vigile controllo censorio delle autorità religiose. Le altre espressioni orali, invece, quelle che noi chiamiamo popolari in modo fuorviante, continuano e sempre continueranno ad evolvere secondo il principio panta réi, tutto scorre.

Paolo Bon
Presidente dell’AIKEM
Associazione Italiana Kodály per l’Educazione Musicale

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