Si potrà ridurre e/o sospendere la terapia immunosoppressiva nei pazienti trapiantati evitando gli effetti collaterali della terapia stessa. Ne beneficeranno soprattutto coloro che hanno ricevuto un trapianto in giovane età e che ad oggi sviluppano nel 100% dei casi tumori a causa della somministrazione prolungata dei farmaci antirigetto.
Chi viene sottoposto ad un trapianto (di rene, cuore o fegato) ha oggi 90 probabilità su 100 di stare bene, ad un anno dall’intervento chirurgico. Ma i risultati a lungo termine – 10/15 anni – non sono così buoni. È perché i farmaci antirigetto che si usano adesso hanno eliminato quasi del tutto il rigetto acuto (quello che si verifica entro un mese dal trapianto), ma non sanno contrastare quello che i medici chiamano rigetto cronico, una forma di danno progressivo all’organo che si manifesta negli anni e porta pian piano alla perdita della funzione del rene (o del cuore o del fegato). Si deve così ricorrere ad un nuovo trapianto o, nel caso del rene, tornare alla dialisi. Tra le cause immunologiche alla base del rigetto cronico, c’è l’attivazione delle cellule T, mediata dal processo di riconoscimento dell’alloantigene e dall’attivazione di segnali di costimolazione, tra cui, il più importante è quello tra il CD28 e il B7. Il blocco di questo sistema di costimolazione determina un effetto significativo sulla sopravvivenza dell’organo trapiantato. Studi effettuati dai ricercatori del Mario Negri di Bergamo hanno infatti dimostrato che la somministrazione sistemica di CTLA4Ig umana – una proteina di fusione in grado di prevenire l’interazione tra il CD28 e il B7 – in aggiunta a basse dosi di ciclosporina, riduce l’incidenza del rigetto acuto nei roditori, aumentandone significativamente la sopravvivenza. Questa molecola non è però risultata altrettanto efficace nei primati non umani, a causa di una minore affinità della molecola per il B7. Si è cercato di aumentare la potenza biologica del CTLA4Ig ed è stato ottenuto il LEA29Y (Belatacept), che differisce dal CTLA4Ig per due soli amminoacidi. Il Belatacept si è rivelato più efficace del CTLA4Ig nel prolungare la sopravvivenza del rene trapiantato nei primati non umani e nell’uomo.
Tuttavia, non riduceva l’incidenza di infezioni opportunistiche e neoplasie, manifestazioni tipiche di una immunosoppressione sistemica, rispetto alla terapia convenzionale. Potrebbe però bastare un piccolo ritocco ai geni dell’organo da trapiantare per scongiurare che il malato ricevente si ritrovi, a distanza di qualche anno, nella situazione di partenza. E per evitargli le cure antirigetto, di cui attualmente non si può fare a meno, ma che lo espongono al rischio di infezioni e tumori. Dopo l’espianto, l’organo può essere ingegnerizzato in laboratorio con il trasferimento di un gene che lo rende capace di difendersi dall’attacco del sistema immune del ricevente senza ricorrere alla terapia immunosoppressiva. Alcuni anni fa, i ricercatori dell’Istituto Mario Negri di Bergamo hanno dimostrato, in uno studio sperimentale, che il trasferimento del gene che forma la proteina CTLA4Ig nel rene dell’animale donatore, prima del trapianto, riduce, ma solo lì dove serve, l’attivazione del sistema immune, responsabile del rigetto. Il gene immunomodulatore, trasportato da un virus inattivo – un virus adeno-associato (AAV) in grado di indurre una duratura espressione del transgene senza segni evidenti di risposta infiammatoria e/o immune – fa sì che la proteina si esprima nel rene per un tempo lungo. Il rene così modificato viene trapiantato in un animale incompatibile senza somministrare altra terapia immunosoppressiva sistemica. Se si pratica lo stesso trapianto senza terapia genica, gli animali sviluppano, nel tempo, rigetto cronico. Ma quelli che hanno ricevuto il rene modificato con CTLA4Ig non ne presentano segni. L’espressione di CTLA4Ig fa sì che quando i linfociti T del ricevente penetrano, attraverso il circolo sanguigno, nell’organo estraneo, questa proteina, prodotta dalle cellule del rene modificato, li paralizza, impedendo che inneschino la reazione immunitaria. Anzi, fa sì che parte di loro si trasformino in cellule regolatorie, capaci di tenere a bada gli altri linfociti che arriveranno in seguito. Il lavoro dei ricercatori del Mario Negri ha aperto una strada nuova per un problema ancora irrisolto nella medicina del trapianto.
Questi studi possono avere applicazioni importanti per migliorare la cura del trapianto nell’uomo. Prima di pensare all’uomo, servono però ulteriori verifiche precliniche. Questo è l’obiettivo di un progetto triennale (2010-2012) che sarà sviluppato da un network di tre centri: l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Bergamo (che è anche Centro Coordinatore), il Consorzio per la Ricerca sul Trapianto di Organi, Tessuti, Cellule e Medicina Rigenerativa (CORIT) di Padova, il Centro Internazionale di Ingegneria Genetica e Biotecnologia (ICGEB) di Trieste. Utilizzando un modello di rigetto cronico messo a punto nei primati, i tre centri di ricerca impiegheranno vettori virali nuovi e studieranno l’efficacia del trasferimento genico di LEA29Y nell’impedire il rigetto cronico nel trapianto di rene, che rappresenta un paradigma per le future applicazioni in tutti gli altri trapianti di organi solidi. Se i risultati saranno positivi, si avrà un enorme impatto socio-economico. Si potrà ridurre e/o sospendere la terapia immunosoppressiva nei pazienti trapiantati, evitando gli effetti collaterali della terapia stessa. Di questo approccio beneficeranno soprattutto coloro che sono stati sottoposti ad un trapianto in giovane età e che svilupperanno tumori nel 100% dei casi, a causa della somministrazione prolungata dei farmaci antirigetto. La riduzione della terapia immunosoppressiva si tradurrà anche in un forte risparmio per la spesa sanitaria. I costi diretti dei farmaci immunosoppressori, e il costante ricorso ai servizi sanitari, costituiscono, infatti, un onere permanente. A questi vanno aggiunti i costi indiretti, associati alla perdita o alla ridotta capacità di lavoro del paziente. Infine, risultati positivi avranno un impatto socio-economico di rilievo per i Paesi in via di sviluppo, dove non è possibile pensare al trapianto come opzione terapeutica a causa dei costi elevati dei farmaci antirigetto. Se il successo ottenuto nei roditori si confermerà negli animali evolutivamente più vicini all’uomo, la svolta sarà davvero significativa ed il metodo si potrà estendere anche ad altri organi.
Giuseppe Remuzzi
Direttore della Divisione di Nefrologia e Dialisi degli Ospedali Riuniti di Bergamo
Susanna Tomasoni
Ariela Benigni
Istituto Ricerche Farmacologiche Mario Negri, Bergamo