All’interno dei servizi sociali comunali, l’area dell’integrazione sociale degli immigrati riveste un ruolo economicamente modesto, ma politicamente delicato, e socialmente sempre più rilevante, nel momento in cui la popolazione straniera residente in Italia cresce anno dopo anno e, nelle regioni settentrionali, si avvicina ormai al 10% del totale.
Le politiche pubbliche per facilitare l’inclusione sociale degli immigrati stranieri sono da considerare estremamente “giovani” rispetto ad altre aree tematiche del welfare. Solo dopo il varo della L.40/98 (Legge “Turco-Napolitano”), è stato per la prima volta istituito uno specifico Fondo Nazionale per le politiche migratorie che, anno dopo anno, ha assicurato con continuità la progettazione di interventi in ambito locale sull’intero territorio nazionale. Questa nuova e specifica area di interventi si è inserita nel tema più ampio della ridefinizione dei processi sulla gestione delle politiche pubbliche di welfare. È cresciuta nel tempo la necessità di migliorare i processi di governance attraverso il coinvolgimento di una pluralità di attori e di sedi decisionali, in particolare del terzo settore. All’interno dei servizi sociali comunali, l’area dell’integrazione sociale degli immigrati riveste un ruolo economicamente modesto, ma politicamente delicato, e socialmente sempre più rilevante, nel momento in cui la popolazione straniera residente in Italia cresce anno dopo anno e, nelle regioni settentrionali, si avvicina ormai al 10% del totale. La storica prevalenza dei settori degli anziani e dei minori nei servizi dei comuni ha contribuito a far sì che in questo ambito (come in quello del disagio degli adulti in generale) il ruolo del terzo settore sia stato crescente e rilevante. Peraltro, le caratteristiche dell’immigrazione straniera in Italia sono sempre state estremamente eterogenee ed in continuo mutamento, richiedendo l’attivazione di sistemi di accoglienza, informazione ed orientamento, nella ricerca di facilitare l’accesso ai servizi.
Dopo un’ambiguità iniziale, legata alle prime fasi del fenomeno, si sta generalizzando un’impostazione che vede la necessità di garantire politiche di integrazione (come corsi di lingua e mediatori culturali) per facilitare l’accesso ai servizi universalistici. Nel corso degli anni novanta appariva già notevole l’impegno del terzo settore nella gestione dei centri di accoglienza, all’epoca ritenuti (non sempre a ragione) centrali nelle politiche di accoglienza.
Negli anni successivi si sono sviluppati maggiormente sportelli informativi per immigrati (spesso per supportare gli utenti rispetto alle procedure di rinnovo dei permessi di soggiorno da parte delle questure e prefetture). Nei servizi a bassa soglia, la flessibilità delle associazioni del terzo settore si è dimostrata strategica nel rispondere con tempestività ai cambiamenti ed ai bisogni via via emergenti. È risultato importante il ruolo delle cooperative sociali nell’assumere direttamente figure di mediatori culturali (con o senza qualifica professionale), che hanno poi prestato la loro professionalità presso pubbliche amministrazioni dove non potevano essere assunti direttamente, tramite concorso pubblico. Nel corso degli ultimi anni, l’evoluzione delle politiche degli enti locali (soprattutto nelle regioni del nord) ha condotto le associazioni del terzo settore dalla gestione dei centri di accoglienza a servizi più flessibili, come corsi di lingue, mediazioni culturali per l’accesso ai servizi (sanitari, scolastici, sociali, ecc.), informazione specialistica, e anche mediazione dei conflitti presso gli enti che gestivano il patrimonio abitativo pubblico. In un contesto di estrema difficoltà da parte degli Enti Locali rispetto al rinnovamento dei propri organici, le migliori energie professionali uscite dai percorsi universitari ed interessate al tema immigrazione (Scienze politiche, Scienze dell’educazione, Antropologia, Master di vario tipo sui temi dell’immigrazione, ecc..) hanno spesso trovato nel Terzo settore un’importante occasione lavorativa.
Nel Terzo settore troviamo molti operatori stranieri, titolari di Lauree e diplomi conseguiti nel proprio Paese di origine, ma di difficile riconoscimento in Italia. Si tratta di persone estremamente motivate, nelle quali la componente femminile è elevata (ad esempio, nel campo della mediazione, le donne superano gli uomini), e che aspirano ad un percorso professionale di crescita e stabilità occupazionale. In questo senso, non bisogna nascondere aspetti meno positivi, o potenzialmente contradditori: in alcuni casi (senza troppe distinzioni di colore politico), l’affidamento di servizi per immigrati ad associazioni del terzo settore non ha rappresentato soltanto una concreta applicazione del principio di sussidiarietà, ma anche una delega in bianco, che talvolta sfiora il disinteresse. Mentre l’azione pubblica si concentra in settori dove è più forte l’attenzione dell’opinione pubblica, o più sostanzioso l’impegno economico, l’area dell’immigrazione può essere considerata poco appetibile dal punto di vista elettorale e poco remunerativa in termini economici (spesso si sottovaluta il gettito fiscale di questi lavoratori) e di consenso. Ecco che l’affidamento di questo settore ad altri può diventare una comoda scorciatoia ed un alibi che può tornare utile nei confronti dell’opinione pubblica. In questi casi, si tratta di una miopia politica/amministrativa, che ha già cominciato a presentare il conto, come i recenti fatti di questi primi mesi del 2010 hanno dimostrato.
Andrea Stuppini
Responsabile Servizio Politiche per l’accoglienza e l’integrazione
sociale Regione Emilia-RomagnaUn elemento di distinzione