Il futuro del welfare

Come procedere al disegno di un nuovo welfare? Il primo passo è quello di superare le ormai obsolete nozioni sia di uguaglianza dei risultati sia di uguaglianza delle posizioni di partenza. Piuttosto si tratta di declinare la nozione di eguaglianza delle capacità mediante interventi che cerchino di dare risorse (monetarie e non) alle persone perché queste migliorino la propria posizione di vita.

Nella seconda metà del Novecento, lo Stato sociale ha rappresentato un’istituzione volta al perseguimento di due obiettivi principali: ridurre la povertà e l’esclusione sociale, ridistribuendo, per mezzo della tassazione, reddito e ricchezza (la cosiddetta funzione di “Robin Hood”) ed offrire servizi assicurativi, favorendo un’allocazione efficiente delle risorse nel corso del tempo (funzione di “salvadanaio”). Lo strumento escogitato per raggiungere lo scopo è stato il seguente: i governi devono usare il dividendo della crescita economica per migliorare la posizione relativa di chi sta peggio, senza inasprire la posizione assoluta di chi sta meglio. Ma un insieme di circostanze – la globalizzazione e la terza rivoluzione industriale – ha causato, nei Paesi dell’Occidente avanzato, a partire dagli anni ’80, un rallentamento della crescita potenziale. Ciò ha finito con il dare fiato, nel corso dell’ultimo decennio, al convincimento per cui i meccanismi redistributivi della tassazione e delle assicurazioni sociali costituiscono la causa del rallentamento della crescita potenziale e, di conseguenza, sono responsabili di generare una scarsità di risorse per l’azione sociale dei governi. I risultati di questo modo di guardare al welfare sono sotto gli occhi di tutti. Non soltanto il vecchio welfare state si dimostra oggi incapace di affrontare le nuove povertà; esso è anche impotente nei confronti delle disuguaglianze sociali, in continuo aumento in Europa. Ad esempio, nell’ultimo quarto di secolo, in Italia la quota dei profitti sul PIL è passata al 23 al 30 % per cento, mentre quella che va al lavoro è scesa dal 77 al 70%. L’Italia è ormai diventata un Paese caratterizzato da una “mobilità a scartamento ridotto”: le persone collocate ai livelli bassi della scala sociale incontrano oggi maggiori difficoltà di un tempo a portarsi sui livelli più alti.

È questo un segno eloquente della presenza di vere e proprie trappole della povertà: chi vi cade non riesce più ad uscirne. Oggi, la persona inefficiente è tagliata fuori dalla cittadinanza, perché nessuno ne riconosce la proporzionalità di risorse. Vale a dire che la persona inefficiente (o meno efficiente della media) non ha titolo per partecipare al processo produttivo. Ne resta inesorabilmente emarginata perché il lavoro decente è riservato solo agli efficienti. Per gli altri, vi è il lavoro indecente, oppure la pubblica compassione. Come procedere, allora, nel disegno di un nuovo welfare? Il primo passo è quello di superare le ormai obsolete nozioni sia di uguaglianza dei risultati (caro all’impostazione socialdemocratica), sia di uguaglianza delle posizioni di partenza (l’approccio favorito dalle correnti di pensiero liberali). Si tratta, piuttosto, di declinare la nozione di eguaglianza delle capacità (nel senso di A. Sen) mediante interventi che cerchino di fornire risorse (monetarie e non) alle persone perché queste migliorino la propria posizione di vita. L’approccio seniano al benessere suggerisce di spostare l’attenzione dai beni e servizi che si intendono porre a disposizione del portatore di bisogni all’effettiva capacità di questi di funzionare grazie alla loro fruizione. Questo significa che i “beni primari” – come li chiama Rawls – sono mezzi per la libertà, ma non costituiscono la libertà stessa a causa della diversa capacità delle persone di “trasformare” i beni primari in effettivi spazi di libertà, di “fioritura umana”. È per questo che il nuovo welfare deve superare la distorsione autoreferenziale del vecchio welfare. Se le prestazioni sanitarie, assistenziali, educative, etc., per quanto di qualità sotto il profilo tecnico, non accrescono le possibilità di funzionamento per coloro ai quali sono rivolte, esse si rivelano inefficaci, e anche dannose, perché non aiutano di certo il processo di sviluppo. In buona sostanza, occorre procedere in fretta a superare l’errato convincimento in base al quale i diritti soggettivi naturali (alla vita, alla libertà, alla proprietà) e i diritti sociali di cittadinanza (quelli a cui si rivolge il welfare) siano tra loro incompatibili e che per difendere i secondi sia necessario sacrificare o limitare i primi. Come ben sappiamo, tale convincimento è stato in Europa all’origine di dispute ideologiche oziose e di sprechi non marginali di risorse produttive.

Di un secondo passo, conviene dire. Il nuovo welfare deve essere sussidiario, deve cioè dirigere le risorse pubbliche ottenute principalmente dalla tassazione generale non per finanziare – come avviene oggi – i soggetti di offerta dei servizi di welfare, ma i soggetti di domanda degli stessi. Ciò in quanto il finanziamento diretto da parte dello Stato delle agenzie di welfare altera la natura dei loro servizi e fa lievitare i loro costi. Quando è lo stato a scegliere i servizi o le prestazioni per i cittadini, deve necessariamente imporre standard di qualità, regolamentativi, avendo in mente un cittadino medio. Ne deriva, per un verso, la non personalizzazione del modo di soddisfacimento del bisogno, il che genera scontento (si rammenti che stiamo parlando di servizi alla persona); per l’altro verso, ciò provoca una lievitazione dei costi, in seguito agli sprechi di qualità, dato che si offre un servizio che, per alcuni, è di qualità superiore alle reali aspettative (superiore, cioè, a ciò che il cittadino sceglierebbe se fosse libero di farlo) e per altri è di qualità inferiore rispetto alle reali esigenze. Ma, soprattutto, il finanziamento diretto dell’offerta da parte dello Stato tende a cancellare o a snaturare l’identità dei soggetti della società civile. Ciò in quanto l’erogazione di fondi a tali soggetti obbliga gli stessi a seguire procedure di tipo burocratico-amministrativo che tendono ad annullare le specificità proprie di ciascun ente. Proprio quelle specificità da cui, ultimamente, dipende la creazione di capitale civile – la risorsa intangibile che costituisce il vero fattore di progresso economico e sociale di una nazione. Infine, come sottolinea Besharov (2003), il finanziamento diretto da parte dello Stato tende a creare falsi vincitori e vinti. Ciò per la semplice ragione che una volta iscritta in bilancio una voce di spesa, la pressione politica è tale che diviene impossibile sospendere o eliminare l’erogazione. Col risultato che continueranno ad essere finanziate agenzie che non lo meritano e, viceversa, saranno esclusi quei soggetti che, invece, potrebbero dimostrarsi più meritevoli dei primi.

Stefano Zamagni
Professore ordinario di Economia Politica ,
Dipartimento di Scienze Economiche, Università di Bologna

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