Il valore produttivo dell’arte

Il nostro Paese, da qualche tempo, soffre di un’enfasi privatistica non sempre sostenuta da realizzazioni conseguenti. Nello stesso tempo persiste un retaggio che discende dal peso che ha avuto nella cultura italiana la visione “spiritualistica” indotta dalla lunga egemonia del neoidealismo. Ciò ha contribuito a determinare un certo ritardo nella ricezione delle acquisizioni rappresentate – tra l’altro – dalle scienze sociali, che hanno potuto prender piede, nel contesto nazionale, solo nel secondo dopoguerra e non senza resistenze e incomprensioni. Ciò ha avuto ripercussioni anche per ciò che concerne l’accettazione delle connessioni tra cultura ed economia, ritenuta quanto di più lontano, giacché considerata pragmatica, ovvero empirica e strumentale, rispetto alle idealità del pensiero. Da qualche tempo, nel segno d’un più stretto collegamento con le tendenze in atto nei Paesi ai quali guardiamo come a dei riferimenti, con sempre maggiore attenzione si tende a considerare la cultura come un comparto produttivo, che non manca di determinare effetti tangibili su aspetti più prosaici e tuttavia importanti per lo sviluppo economico. Diciamo che questo contro-movimento, rispetto all’eccesso precedente, può certamente favorire l’esito di un maggiore equilibrio. Nondimeno occorre stare attenti: perché nelle cose dell’arte, il mercato – “a chi” qualcosa è diretto – può avere un rilievo, purché non si perda di vista il laboratorio, il concreto lavoro di “chi” effettivamente fa cultura. E spesso, più dell’impresa, contano le “audaci imprese”. Insomma: c’è il rischio d’una visione semplicemente rovesciata rispetto a quella idealistica, vale a dire utilitaristica e non qualitativa della cultura; mentre il modello dell’impresa culturale è molto più consonante con quello dell’artigiano, dell’artefice di quello che un tempo si diceva “il lavoro ben fatto”. Ora anche qui la vera scommessa è quella di favorire una maggiore corrispondenza tra la politica culturale e le ragioni del “fare cultura”, a condizione che vi sia comprensione per queste ultime. Ben sapendo che del contributo pubblico, in qualche forma e in qualche misura, specie a fronte di beni artistici e delle loro esigenze di tutela e di valorizzazione, raramente si può fare a meno. Oggi occorre guardare al mondo dell’arte come a un’attività connessa alla nuova economia dei contenuti, dei beni, per quanto immateriali, della creatività. D’altra parte, lo stesso settore dell’arte è sempre stato fortemente legato alla dimensione economica, pubblica e privata, dalla committenza, laica e religiosa, al mecenatismo, sino ai mercanti d’arte, dalle quadrerie delle grandi famiglie sino allo sviluppo dell’antiquariato e del collezionismo. I banchieri fiorentini del Quattrocento avevano colto benissimo il valore produttivo dell’arte. Diversamente non si sarebbero impegnati a stanziare, come è stato calcolato, l’equivalente di 25 milioni di Euro per la costruzione, ad esempio, della cupola di Santa Maria del Fiore per opera di Filippo Brunelleschi. Il massimo della tecnologia architettonica del tempo. Quegli imprenditori, in effetti, investirono notevoli risorse, ma fecero l’interesse della loro comunità: basta pensare al reddito che sarebbe derivato ai posteri, nei secoli successivi, dalle conseguenze dell’operazione, in termini commerciali e turistici. D’altra parte, sulla portata economica del turismo culturale si pensi all’attrattività esercitata, relativamente al patrimonio artistico, dai principali musei, costitutivi dell’identità stessa di una comunità. È stato calcolato come New York incassi 7 dollari per ogni dollaro speso in biglietti per ingressi ai musei, visite a gallerie d’arte e in attività genericamente culturali (Silvia dell’Orso, Altro che musei. La questione dei beni culturali in Italia, Bari, Laterza, 2002, pp. 166-7). È in questo modo che i giacimenti culturali possono diventare un motore di sviluppo economico. Ed ecco perché non bisogna avere atteggiamenti snobistici o aristocratici. Prevale invece una mentalità ancora ancillare del patrimonio artistico, che, nonostante il profluvio di buoni propositi, tende a considerarlo come un “ornamento”, o, come ha sostenuto Marc Fumaroli, come qualcosa al servizio di una società segnata dalla crisi di un pensiero forte. Diminuiscono i finanziamenti e, al contempo, non emerge un progetto di imprenditorialità capace di fondarsi sugli autonomi valori dell’arte. Non solo. Sarebbe ora di superare un altro stereotipo: quello di un ente pubblico inerte e burocratico, a favore di una visione dinamica dell’economia civile fatta di sussidiarietà e di no profit (che non significa non fare utili, ma farli con la finalità di reinvestirli). È nel lavoro micrologico di tanti Enti locali, nonostante tutto, a fronte della crisi di uno Stato a centralismo debole, una chiave essenziale per le sorti di una politica orientata alla promozione dell’arte, della sua autonomia, ma anche dello sviluppo economico che essa può contribuire a produrre.

Marco Macciantelli
Dottore di ricerca in estetica

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