«Non credo a una rancorosa diffidenza degli intellettuali inglesi per le strutture statali, ma è utile ricordare che la mia carriera, e quella di gente come Harold Pinter e Shelagh Delaney, è stata lanciata da fede privata, da chi ha comprato i biglietti al botteghino, non certo da patronaggio pubblico». John Osborne
Si sa che tanto più un privilegio è assurdo tanto minori sono le possibilità di scalfirlo. Infatti se ha resistito nel tempo contro ogni logica, verosimilmente gli interessi che tutela saranno potenti e radicati. Dal modesto e irrilevante punto di vista del contribuente, il sistema di finanziamento pubblico alla musica presenta tre aspetti particolarmente perversi: uno riguarda il mercato, un altro la visione culturale, un terzo il vantaggio sociale.
1) Quando si lamenta scarsità di risorse, raramente si rileva che si tratta di un mercato assistito, quindi non fondato su valori oggettivi – le leggi della domanda e dell’offerta – ma attribuiti. Il “valore” di mercato del tenore x o del direttore d’orchestra y non dipendono da quanto incasserà al botteghino, ma da un costume consolidato che così ha deciso. Tuttavia sono considerati valori immutabili.
2) In questo mercato assistito, circa l’ottanta per cento delle pubbliche risorse va a documentare un secolo di storia musicale in un solo paese (il me-lodramma italiano), mentre col restante venti per cento bisognerebbe documentare il resto della storia musicale del mondo. Una proporzione implausibile.
3) L’offerta musicale pubblica è pagata col denaro di tutti i contribuenti, ma si rivolge a una porzione infinitesimale della popolazione, per di più selezionata per censo. Questo sistema sostanzialmente immobilizzato trascura il fatto che la cultura è ormai considerata nel resto d’Europa un settore strategico, tanto più quando i mercati diventano globali e si sviluppa la distribuzione via Internet. Invece, già nel lontano 15 maggio del 1993, in un articolo significativamente intitolato “I cortigiani della cultura”, Sergio Romano scriveva sulla Stampa: “Se potessimo misurare la vita intellettuale italiana con la stessa precisione con cui calcoliamo il debito pubblico (…) scopriremmo che quasi tutte le cifre sono in rosso”. Da allora la situazione è parecchio peggiorata. Il modello della “politica culturale” nazional-popolare si è esteso ben oltre la televisione, non solo nel livellamento verso il basso dei contenuti, ma nelle implicazioni economiche: siamo consumatori voraci di prodotti culturali e non esportiamo più quasi nulla. Meno che mai nei settori più massicciamente “assistiti”. Verso la prevalenza di quel modello di “politica culturale”, con sfumature diverse a destra e a sinistra, sembra si sia scivolati per forza d’inerzia. Con l’aggravio di alcuni “valori” col tempo trasformatisi in “pesi”: la tutela dell’occupazione e delle condizioni di lavoro, involuta in deriva corporativa; il sostegno alla creazione, ridottosi a tutela delle rendite di posizione degli autori fondate sulle sovvenzioni; la passività di una spesa pubblica che ha progressivamente smarrito le ragioni della sua necessità. Altri vizi storici si sono aggravati: l’incapacità di cogliere i nessi fra qualità e mercato; la progressiva scomparsa dell’imprenditoria culturale, compreso il mecenatismo (in otto regioni italiane su venti non c’è uno straccio di imprenditore che investa un centesimo in cultura; il sud è in questo una vera “terra desolata”). È un sistema completamente rigido e impermeabile, vincolato a varie “corporazioni” che impediscono a soggetti emergenti sia l’accesso al mercato pubblico che a quello privato.
In questo scenario, le caratteristiche richieste al ceto e al dirigente culturale non sono più la competenza professionale verificata, le relazioni internazionali, il rigore amministrativo, la sensibilità artistica, la conoscenza del mercato, bensì la capacità di intrattenere pubbliche relazioni, il procacciamento di sponsor, la vicinanza al ceto politico. Nel biennio 2003-2004 la spesa delle Regioni e degli enti locali per la cultura ha superato quella dello Stato. Un ragionamento che voglia rilanciare la cultura, sottraendola all’ambito di “produzione di consenso” in cui è ormai rinchiusa, non può non tener conto di questo dato. Con la moltiplicazione degli sportelli pubblici di spesa culturale avvenuta negli anni Settanta, nelle amministrazioni locali si verificano esiti interessanti. Da un lato lo sforzo di una diversa gestione degli apparati tradizionali (enti lirici e teatri stabili), dall’altro l’apertura a linguaggi, generi, spazi, spettatori e artisti tradizionalmente estranei alle istituzioni. Valgano per tutti gli esempi di Umbria Jazz e dell’Estate Romana. Per la prima volta cade la distinzione fra art business, o cultura alta, pubblicamente sovvenzionato, ed entertainment business, o cultura bassa, interamente privato. Questa scelta innesca alcuni processi fecondi, e altri assolutamente catastrofici.
Esiti positivi:
1) In primo luogo aver favorito l’accesso al cittadino meno abbiente (che è anch’esso però contribuente) all’offerta mediata dall’istituzione culturale pubblica.
2) Aver reso più labile la frontiera (storicamente solidissima in Europa) fra arte e intrattenimento; così come è tradizione invece della cultura americana (si potrebbero citare esempi a decine: dal cinema di altissima qualità e di altrettanto alta diffusione, alla pop art, che da opera d’arte destinata a pochi salta poi sui veicoli destinati a molti, poster, ecc.).
3) Aver favorito l’affermazione di nuovi soggetti di promozione culturale, sia sul piano dei linguaggi (la musica popolare, il jazz, ecc.), sia su quello delle forme organizzative e produttive (club, cooperative, circoli, festival).
Esiti negativi:
1) Essendo più vicini al “sentire” popolare, questi ambiti hanno incoraggiato negli amministratori locali la tendenza a trasformare gli assessorati alla cultura in assessorati al consenso.
2) La prima implicazione è stata la “rincorsa verso il basso” sul piano dei contenuti e l’abbandono di quel processo di “produzione di pubblico” fiorito negli anni Settanta. Seconda implicazione: una contiguità sempre più prossima col mondo dello star system, da un certo punto in poi foraggiato con denaro pubblico, incomprensibilmente, visto che trattasi di un business lucrativo.
3)La creazione di aspettative di lavoro basate non sul sostegno a un sistema produttivo in grado di svilupparsi autonomamente e competere sul mercato, bensì sulla logica del sussidio. A partire dalla fine degli anni Ottanta viene di gran moda la parola magica privatizzazione. Una parola della quale a stento si comprende il senso reale: nel campo della cultura, infatti, alla figura giuridica privata (le fondazioni) non corrisponde una trasformazione altrettanto profonda nelle politiche. Si verifica semmai un’altra trasformazione: la privatizzazione degli enti lirici induce a smarrire il senso fondamentale e di rilievo pubblico delle loro funzioni, cioè la conservazione e la valorizzazione del patrimonio musicale. Di conseguenza viene persa per strada un’altra funzione di rilievo, peraltro solo occasionalmente assolta in passato: l’impegno nella creazione e nella ricerca. Il mercato culturale diventa una grande “zona grigia”, generosa di profitti privati e sempre più povera di ricadute pubbliche. In quello che era il mercato tradizionalmente “sovvenzionato” (musica classico-contemporanea) non si è avuto alcun beneficio, essendo i bilanci della gran parte delle fondazioni liriche rimasti “in rosso” com’erano prima. La musica “commerciale”, il cui mercato era tradizionalmente privato, ha una presenza crescente nei cartelloni di fondazioni ed enti locali, dove viene sovvenzionata. Uscire da questa palude è praticamente impossibile, salvo modificare radicalmente l’architettura del sistema di sostegno pubblico e le sue finalità. L’ipotesi che segue è ovviamente da considerare mero esercizio, e del tutto irrealizzabile perché nessuno, a nessuna latitudine politica, ha la volontà di scalfire i privilegi di cui si diceva all’inizio. Da giornalista quale sono, ho sempre considerato “perché?” la domanda più interessante: perché mai il contribuente dovrebbe finanziare la musica? Tre risposte plausibili sono: conservazione e valorizzazione del patrimonio storico; sviluppo della ricerca; promozione culturale, sia sul piano della diffusione dell’attività che su quello del mercato. La spesa per il primo andrebbe ridimensionata radicalmente: che tre o quattro teatri di tradizione nel raggio di cento chilometri facciano ogni anno varie produzioni operistiche, sovente mediocri, non serve a nessuno; se una grande star del pianismo solista ha un cachet di 40.000 euro in un mercato sovvenzionato, forse può contentarsi di 20.000; il costo delle burocrazie, nell’era informatica, è largamente comprimibile. La qualità della ricerca deve avere qualche forma di riscontro, non certo da parte delle grandi platee, ma almeno dell’attenzione e del riconoscimento internazionale. Un nuovo sistema di sostegno, basato su parametri quantitativi, e mirato all’apertura di accessi al mercato, andrebbe istituito per la promozione nazionale e soprattutto internazionale della nostra produzione musicale (come d’altra parte si fa nel resto d’Europa). Musicisti e gruppi dei quali si ritiene che abbiano possibilità di affermazione andrebbero sostenuti solo finché non si reggano sul mercato con le proprie forze, e se questo non avvenisse perderebbero il diritto al finanziamento. È chiaro che un tale sistema ridurrebbe al minimo il potere di discrezionalità della politica e delle burocrazie culturali, ma se si toglie loro la discrezionalità, cosa resta loro?
Filippo Bianchi
Direttore di Musica Jazz, membro della Commissione Musica del MIBAC,
Fondatore e Presidente dell’Europe Jazz Network