Non solo CO2

Nell’ultimo periodo, il dibattito scientifico sul cambiamento climatico, ed in particolare sul ruolo della “forzante antropica” legata all’aumento dei gas serra, ha assunto toni molto accesi, spesso amplificati dallo schizofrenico oscillare dei media tra allarmismo e negazionismo.

Che non vi sia accordo unanime tra gli scienziati è fisiologico, fa parte della ricerca scientifica e ne garantisce il progresso. La complessità dell’argomento, inoltre, aggrava ulteriormente la situazione.
Il clima è infatti un sistema straordinariamente articolato, legato agli scambi ed alle interazioni tra atmosfera, oceani, ghiacciai, biosfera (flora, fauna, organismi viventi) e suolo. Il suo studio è multidisciplinare e richiede il contributo di fisici, astrofisici, geologi, biologi e molti altri “scienziati della Terra”.
Come se ciò non bastasse, le dinamiche climatiche vanno considerate su scale spaziali e temporali molto ampie e messe in relazione con fenomeni che avvengono al di fuori della Terra, attività solare in primis.

Il dibattito sul cambiamento climatico sembra essersi arenato nei suoi estremi: da una parte c’è chi pensa che l’impatto delle attività umane sul clima sia trascurabile, in quanto il clima evolve seguendo dinamiche naturali; dall’altra c’è chi sostiene che l’impatto antropico sul clima è predominante ed è interamente ascrivibile all’incremento della concentrazione dei gas serra nell’atmosfera.

Uno spunto ragionevole per uscire dall’empasse proviene dal recente lavoro del gruppo di ricerca di Roger Pielke, dell’American Geophysical Union (AGU), pubblicato a fine novembre.
Gli autori indicano una terza strada, che si pone in maniera trasversale rispetto ai due estremi.
Questa “terza via” riconosce sia le variazioni del clima dovute alle attività umane, sia quelle di origine naturale. Ma, soprattutto, afferma che l’incremento dei gas serra nell’atmosfera è solo uno dei modi con cui l’uomo “forza” il funzionamento della macchina climatica.
Secondo questa interpretazione, accanto alle emissioni di gas serra vanno considerati l’inquinamento ambientale, la variazione d’uso del suolo e altre pressioni umane che interferiscono con i cicli bio-geochimici alla base dell’equilibrio terrestre (ciclo del carbonio, dell’acqua, dell’azoto).

Che fare, dunque?
Lo scenario prospettato è complesso ed implica un maggiore impegno sui temi dei cambiamenti climatici. Si tratta di affiancare alle politiche di riduzione delle emissioni delle strategie in grado di mitigare gli effetti di queste altre forzanti.

Dal globale al locale
Ampliare l’analisi a forcing diversi dai gas serra presuppone che non si possa valutarne l’impatto esclusivamente su scala globale, in quanto è a livello regionale che gli effetti sono più significativi ed è maggiore l’esigenza di conoscerli ai fini delle scelte concrete di gestione del territorio.
Emerge quindi la necessità di concentrare le analisi e gli sforzi di previsione, valutazione del rischio e mitigazione su ambiti spaziali e temporali più ristretti.
Una migliore conoscenza delle dinamiche locali del clima può fornire indicazioni utili a comporre il quadro scientifico generale dei cambiamenti climatici e, quindi, a comprenderne meglio le dinamiche globali.

Va in questa direzione anche il prossimo rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel of Climate Change), in uscita nel 2014, caratterizzato da una maggiore impronta locale delle previsioni. Analizzerà scenari di cambiamento climatico molto più dettagliati, sia in relazione alla scala temporale (breve-medio periodo), sia a quella spaziale (regionale).
Queste considerazioni evidenziano la centralità della dimensione locale per la lotta ai cambiamenti climatici e, più in generale, per la sua sostenibilità.
Non va però dimenticato che i problemi sollevati dai cambiamenti climatici investono il quadro più ampio della disponibilità delle risorse naturali (acqua, cibo, aria), del rapporto tra l’uomo e l’ambiente e, in ultima analisi, della sopravvivenza del pianeta. Come tali, hanno bisogno di risposte globali, coordinate e condivise.

L’azione internazionale deve essere orientata da un lato a stabilire obiettivi e obblighi vincolanti per i vari Paesi (vedi Protocollo di Kyoto) e dall’altro a mantenere la regia degli interventi attuati a livello territoriale.
In assenza di un quadro internazionale, inoltre, si rischia di aggravare ulteriormente la situazione dei Paesi più poveri, che non subiscono solo gli impatti di un processo che non hanno contribuito a generare, ma che non hanno neanche la capacità economica e tecnologica per affrontarlo.

Quali che siano le strategie, non si può prescindere da una riflessione sul modello di sviluppo che ha guidato le società moderne dalla rivoluzione industriale ad oggi e che, come il problema del cambiamento climatico ha messo in evidenza più di ogni altro problema ambientale, è basato su un approccio nell’uso delle risorse naturali profondamente sbilanciato.

Federica Zabini
IBIMET Istituto di Biometeorologia del CNR, Firenze

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