Una speranza dal tavolo tecnico

Dall’abisso emergono due immagini che ci garantiscono fiducia.

La prima viene dalla collina di Rimini: da un anno e mezzo, 34 detenuti del carcere cittadino hanno ottenuto la custodia presso la “Casa del Perdono”, struttura aperta, gestita dai volontari di don Benzi. Tra loro, solo un’evasione ed un ritorno in carcere. Per tutti gli altri, imputati e condannati, la pena residua è scontata in un contesto comunitario di reinserimento sociale e lavorativo, con il pieno consenso del magistrato di sorveglianza. Nessun contributo dallo Stato, solo volontariato e sostegno della Regione, grazie ad un progetto finanziato attraverso la legge regionale n. 3/2008 “Disposizioni per la tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari della Regione Emilia-Romagna”. La seconda viene da poco distante: Castrocaro, colline di Forli. Da quasi due anni, la Comunità di Sadurano, attivata in convenzione con la USL di Forlì in base ad una accordo con la Regione, accoglie 14 persone provenienti dall’OPG di Reggio Emilia. Anche in questo caso, in una struttura protetta, a custodia attenuata: per ognuno di loro è definito un progetto personalizzato, in accordo e relazione con la Usl di provenienza, funzionale al reinserimento al termine della misura di custodia. Si può fare, quindi. Si possono valorizzare le risorse del territorio, definire percorsi nuovi ed utilizzare misure alternative che oggi, invece, rappresentano sempre più un’eccezione. Da dieci anni, la situazione delle carceri in Emilia-Romagna è continuamente peggiorata. Oggi, dopo il breve “effetto indulto”, ci troviamo a far fronte ad un’emergenza insostenibile, che impedisce di recuperare il senso ed il valore Costituzionale della detenzione. La nostra Regione è quella con il più alto indice di sovraffollamento d’Italia (180%). Questa situazione rende impossibile ogni percorso di reinserimento e riabilitativo e rende reale il rischio di pandemia: patologie ormai dimenticate (ad esempio la TBC) ricompaiono nelle strutture, esponendo detenuti e personale a condizioni insopportabili. Per quale irresponsabilità collettiva questo Paese ha taciuto e negato a se stesso quel che accade dentro il sistema penitenziario? Continue diminuzioni di risorse, una legislazione ostentatamente tesa a colpire tipologie di reati che invece, se depenalizzati, avrebbero ben altra ricaduta sociale, politiche che nel loro insieme vogliono colpire persone immigrate o tossicodipendenti, così da poter simbolicamente ridefinire il concetto di una cittadinanza escludente ed incardinata sull’induzione di paure ed allarme sociale. Questo è ciò che ora abbiamo, ed è per questo che nessuna nuova sezione o nuove e futuribili strutture penitenziarie risolveranno questo inferno voluto. Se, infatti, non solo nessuna riflessione è in corso sulla legislazione che concorre a determinare questa situazione ma, addirittura, la stessa immigrazione clandestina diviene reato penale, è realistico attenderci solo un aggravamento. Nel frattempo, per 4.000 detenuti, 2.100 dei quali stranieri (il 73% dei quali in attesa di giudizio), possiamo contare su poche decine di educatori (in alcune strutture uno solo), l’organico del personale di polizia penitenziaria è sottodimensionato del 27%, tutte le realtà sono alle prese con il decadimento delle strutture, tale da rendere necessario, come accaduto a Ravenna ed a Bologna, ordinanze dei sindaci per indurre il DAP ad eseguire manutenzioni ordinarie e straordinarie. In questo quadro desolante, è comunque importante cogliere un segno di disponibilità: il Governo ha accettato la proposta del presidente della Conferenza Stato-Regioni e della Regione Emilia-Romagna, Vasco Errani, di istituire un tavolo tecnico sulle carceri. Le Regioni vigileranno affinché questo inedito strumento possa realmente produrre misure concrete per migliorare la condizione di vita di detenuti ed operatori.

Gianluca Borghi, Anpi – Greenpeace – Amnesty International

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