“Trans…itare” in carcere

Abbiamo avuto occasione di lavorare in una sezione carceraria dedicata all’accoglienza di omosessuali e transessuali. Abbiamo incontrato una realtà che “non si vede”, che si muove ai margini della vita delle persone e che appare solo negli scandali, come un mondo separato, da frequentare di nascosto, e da lasciare nascosto. Il carcere è pieno di storie inenarrabili. Ma vogliamo provare a dire qualcosa. Nel lavoro in sezione, un laboratorio di auto ed etero percezione a mediazione corporea, abbiamo conosciuto persone che, con stupore ed interesse, accoglievano le nostre proposte e provavano a raccontarsi. E a raccontarci. Che cosa ne è emerso? Abbiamo trovato una grande voglia di comunicare, di ascoltare, di pensare a sé in una dimensione di “parità”, da persone. Spaccati di vite difficili, percorsi alla ricerca di un’alternativa tra i quartieri degradati di città lontane (provengono spesso dal Brasile o dalla Bolivia), esperienze frequenti di violenze e di emarginazione. Il viaggio verso l’Europa è il viaggio alla ricerca di un’identità negata. Che però tale rimarrà. Spesso in carcere, perché non in regola con i permessi di soggiorno o per piccoli furti ai “clienti”. In questo modo, perdono ogni possibilità di rinnovo dei permessi di soggiorno. In carcere hanno poche alternative. Possono partecipare solo a progetti pensati e realizzati per loro e rimangono nelle sezioni speciali con la consapevolezza che, al momento della scarcerazione, possono solo tornare nel loro Paese o nella clandestinità. Esistono pochissime comunità disposte ad accoglierli. Pochissime anche altre esperienze di integrazione. Tornare nel loro Paese significa ripiombare nelle relazioni violente ed emarginanti da cui sono scappate, ma rimanere qui equivale a ripercorrere la strada della prostituzione, della manipolazione del corpo nel tentativo di rimanere “oggetto di desideri inconfessabili”. Per loro, la parola FUTURO è inquietante. Vivono nel quotidiano, “fantasticando” storie e soluzioni, consapevoli che non si realizzeranno. Che progetti possono fare? Quali soluzioni possono trovare all’esterno? Qualcuna ha provato a pensarci, ma ci ha rimandato tutta la sua disperazione. L’unica soluzione è “fare tanti soldi per poter tornare a casa e <<comperare>> così la stima della famiglia, l’ammirazione del quartiere”. Abbiamo proposto di scrivere una lettera ad un’amica immaginaria. Una di loro ha scritto: “Cara Bia, voglio dirti che nella vita molte volte si sbaglia, ma la cosa più importante è non dimenticarsi dell’amore per noi stesse perché tu vali più dell’oro e del platino. Questo oggi mi è tornato in mente”. Quando parliamo di “trans”, se ci rendessimo conto anche solo di una minima parte, non ci chiederemmo solo chi “va con loro”, ma chi sono loro, dove abitano, se coltivano sogni o sentono di aver diritto a sognare. È possibile che loro “rappresentino” tutte le nostre parti immature, perverse, a cui non rinunciare. Per questo le si incontra di nascosto, le si nega, non ci si prefigura la costruzione di strade verso la normalità, le si frequenta “clandestinamente”. Al termine, ci siamo salutate con la consapevolezza di portare tutte a casa qualcosa di prezioso, un angolo di calore nel cuore, un saluto tra persone che si sono conosciute, ascoltate, fidate, stimate. Per loro e per noi è stata un’esperienza inconsueta e straordinaria. Sarebbe interessante se nelle interviste si provasse a lasciar perdere le domande “morbose”, tese a definire un noi e un loro che, almeno apparentemente, ci tranquillizza. Per aiutarle a trovare strade nuove, sarebbe interessante se avessimo il coraggio di chiedere loro non quali clienti conoscono, ma quali sogni frequentano.

Gabriella Albieri
Donatella Piccioni

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