Per noi Cappellani, ma anche per tutti i credenti, non vi sono e non vi possono essere «mostri», ma solo uomini, che hanno sbagliato, che hanno compiuto talvolta crimini efferati; uomini, in sostanza, che non hanno saputo o voluto accettare le norme consuete del vivere corretto e civile.
La nostra esperienza ci fa dire con don Curioni: “La Chiesa, una sfida alla criminalità”. Perché là dentro, la Chiesa é l’unico motivo vero di speranza. Al di là anche delle nostre persone e del nostro impegno personale, per quanto anche questo conti, conta molto la nostra assiduità, la nostra attenzione a loro. Là è soprattutto la Chiesa che, attraverso le nostre persone, porta quell’unica scintilla di luce in un mondo nel quale il buio é spesso completo. Allora, la prima riflessione é questa: perché la Chiesa è lì? Vorrei solo fornire un’indicazione da un angolo di visuale esclusivamente evangelico. La Chiesa è lì perché ci sono degli uomini di fronte a Dio perfettamente uguali, redenti dal medesimo sangue di Cristo. Questo è un dato assoluto, che non può essere diminuito da nessuna considerazione sociologica e giuridica. È vero che coloro che sono detenuti vivono una situazione diversa dagli uomini liberi, perché la privazione della libertà crea certamente una situazione di inferiorità. Questa inferiorità, potremmo dire, esistenziale, non può certo permetterci di considerarli inferiori per il fatto che essi sono entrati nelle maglie della giustizia. E non parlo solo di coloro che potrebbero essere innocenti; intendo anche quanti hanno certamente creato profonde ferite nella società. D’altra parte, basta pensare alla stampa, la quale, spesso, ancor prima delle prove sbatte il “mostro” in prima pagina. Per noi Cappellani, ma anche per tutti i credenti, non vi sono e non vi possono essere “mostri”, ma solo uomini che hanno sbagliato, che hanno compiuto talvolta crimini efferati. Uomini, in sostanza, che non hanno saputo o voluto accettare le norme consuete del vivere corretto e civile. Detto questo, però, e presupponendo con questo tutto l’impianto della giustizia umana che persegue e naturalmente punisce questa realtà (talvolta in modo equo, talvolta in modo ingiusto o assurdo, ma purtroppo anche questo è il prezzo fatale dell’imperfezione degli uomini), penso di poter porre di fronte alle nostre coscienze un episodio evangelico per me molto significativo. È un episodio che purtroppo il modo corrente di esprimersi ha un po’ caramellato e ridotto a qualche cosa di emotivo: quell’episodio che chiamiamo “buon ladrone”.
Cerchiamo di leggerlo nella sua integrità, senza falsi orpelli. C’è Gesù, e vicino a Lui ci sono due personaggi condannati al supplizio secondo le leggi di quella società. Il Vangelo non dà nessun suggerimento perché si possa dire che la condanna sia stata ingiusta e crudele. Il Vangelo dice solo che erano due ladroni, due mascalzoni che nel contesto sociale in cui vivevano non avevano accettato le comuni norme del vivere. La differenza tra l’uno e l’altro, tra quello che chiamiamo buono e quello che chiamiamo cattivo, secondo il Vangelo, non sta nel fatto che è stato condannato giustamente e l’altro ingiustamente, e nemmeno – anche qui prendiamo alla lettera il passo scritturistico senza aggiungerci nulla di nostro – tra uno che si pente del male fatto e uno che, invece, impreca. Ci troviamo di fronte a uno che, nonostante tutto il male fatto, dichiara di voler bene a Cristo e a Lui chiede salvezza. È il primo dei redenti. Senza considerazioni melense o pietistiche: la realtà è questa. Una realtà che, in un convegno di cappellani che ha avuto molto rilievo sulla stampa, il Cardinale Carlo Maria Martini ha con molta chiarezza svolto in una relazione incentrata sul tema: “La dignità della persona umana”. Tutti i riferimenti biblici presentati dal Cardinale dimostravano che l’uomo, qualsiasi uomo, è creato a immagine e somiglianza di Dio. Da queste premesse consegue che il Cappellano, e non solo lui, ma tutti quelli che si dicono cristiani, devono vedere in questi uomini, così come sono, semplicemente dei “fratelli”. La parola non deve avere equivoci. Siamo fratelli nella redenzione di Cristo e non in senso puramente emotivo o utopistico: lo siamo realmente.
Quindi, una deduzione precisa: un aspetto che non possiamo accettare è quello del pietismo. Già la frase consueta “poveri detenuti”, senza volerlo, crea una differenza: noi, i buoni, gli onesti, i cittadini per bene, e loro, un gradino più sotto, verso i quali dobbiamo provare compassione. Certamente, non facciamoci illusioni, lo stato di detenzione, e magari anche il loro passato burrascoso, li pone in una situazione di inferiorità verso gli uomini liberi. Ma se il cristiano vuole essere conseguente, li deve prendere, così come Cristo sul Calvario, nella loro realtà concreta, spesso assurda e orrenda, ma non per questo privi della figliolanza di Dio e della fraternità in Cristo con noi.Si tratta di un atteggiamento tanto concreto, quanto realistico, che porta il cristiano ad inserirsi in questa realtà senza essere solo uno spettatore compassionevole, anziché crudele. Il carcere è una realtà che costringe a fare verità”. La prima visita pastorale di Martini come vescovo della diocesi ambrosiana è avvenuta proprio a San Vittore, durata quattro giorni. Ha voluto incontrare detenuti, agenti e operatori. Mentre percorreva il seminterrato del primo raggio, denominato “ai topi”, allora gremito di detenuti isolati, il vescovo vide una porticina e chiese dove conducesse. “All’area dei brigatisti”, rispose il comandante che ci accompagnava. “Ci sono i detenuti?”, domandò l’Arcivescovo, desideroso di varcare quel blindo. “Sì, stanno facendo l’ora d’aria”. “Li voglio visitare”, disse con umile autorevolezza. “Ma sono terroristi, pericolosi, non meritano…”. Il direttore d’allora non poté finire la frase interrotta dal visitatore di Dio: “Sono uomini!”. E subito si trovò di fronte a quegli uomini rinchiusi in gabbia. “Fatemi entrare con loro”. Il carceriere gli aprì senza obiettare più; lo lasciò entrare e subito gli chiuse il cancello alle spalle. I detenuti non credevano ai loro occhi. Gli si fecero attorno, lo salutarono con gioia e cominciarono a conversare con lui. Dopo un breve dialogo, uno gli chiese di farli pregare. Con loro si rivolse al “Padre nostro che sei nei cieli”, concludendo insieme: “Liberaci, liberaci dal male. Amen”. Nel nostro desiderio di testimoniare nel pianeta-carcere la speranza nel Cristo morto e risorto, ci presentiamo come peccatori salvati da quella misericordia che vuole comunicare e per questo non abbiamo un atteggiamento da giudice, ma di solidarietà con tutti perché noi come gli altri siamo bisognosi di salvezza. Tutti noi facciamo esperienza che l’altro, detenuto o no, che percepisca questa profonda solidarietà, aperta ad un cammino di condivisione salvifica, può compiere un cammino di liberazione interiore che diviene scoperta della vera autentica libertà.
Allora, paradossalmente, troviamo qui l’aspetto positivo della detenzione. Ogni volta che l’uomo si trova dinanzi al dolore può assumere un atteggiamento di ribellione e rassegnazione oppure può aprirsi al dono gratuito e scoprire i veri valori della vita. (Alcune testimonianze: 1. Padre, qui dentro ho capito che mia moglie mi ama. 2. Queste sbarre mi impediscono di scappare, ma non impediscono a Dio di entrare. 3. Tutti mi hanno abbandonato. Questo Cristo crocifisso no!. 4. E che dire di D. che accompagno da due anni prima a Trieste e adesso a Venezia, che in carcere sta maturando un’ipotesi di vita consacrata? E che dire anche di un giovane agente ausiliare che sta facendo gli Esercizi Spirituali nella vita corrente per capire con più chiarezza cosa Dio vuole da lui? Chi ha più esperienza di me può continuare l’elenco…).È a partire da momenti di condivisione di vita, dal desiderio nostro di una più profonda solidarietà, che acquista nuova luce il messaggio della Parola che annunciamo e l’attualizzazione dei sacramenti, soprattutto della Riconciliazione e dell’Eucaristia. Noi sacerdoti inviati nel pianeta-carcere, come dice Card. Martini, siamo la simpatia di Dio, perché con la nostra vita e con la nostra disponibilità diventiamo testimoni della riconciliazione con Dio e con gli uomini. Per quanto mi riguarda, sento che il momento più forte e più significativo di questa missione è il sacramento della riconciliazione, punto di arrivo di un cammino che ha fatto scoprire al detenuto la presenza della croce di Cristo nelle stesse lacerazioni che vive. Certo, non quotidianamente, arrivo a questa esperienza di liberazione a partire dal delitto e dal male, dalla sofferenza e dal dolore. Ma è importante che, in qualunque modo si rivolga la mia presenza in carcere, sono chiamato ad aver chiaro che il mio obiettivo finale, e, nello stesso tempo, l’inizio di un vero cammino di rieducazione, è comunicare, e testimoniare il mistero della riconciliazione con Dio e con i fratelli. Mille volte sono tentato di esercitare un’azione visibilmente più incisiva nei confronti dei detenuti, dei familiari, della magistratura, della stessa struttura carceraria, dell’opinione pubblica, spesso animata dalla vendetta e nei confronti della stessa chiesa locale, spesso assente ed ignara dei problemi dei detenuti. (Il mio Vescovo di Trieste, qualche Natale fa, ha detto: Il Coroneo (nome attribuito tradizionalmente al carcere giuliano…) si trova nel cuore della città, ma è nel cuore della Chiesa e dei cittadini?)
.Si può fare molto e si può tentare il possibile, ma per me sento importante sottolineare che è urgente anzitutto una testimonianza di radicale incarnazione dell’amore/perdono, testimonianza di una compassione e di una solidarietà che risponda all’attuale bisogno di una salvezza, di una liberazione che va oltre il fatto fisico della liberazione dal carcere. Sento che comunico la “Speranza” quando mi viene concesso il privilegio di entrare dentro il cuore, dentro la coscienza ferita e sanguinante della donna e dell’uomo detenuti, quando con trepidazione mi faccio loro prossimo condividendo, compatendo con estremo rispetto il mistero del dolore. Cerco così, io presbitero-peccatore salvato, di rendere presente il “buon samaritano” che si avvicina, che fa “suo” il dolore, l’angoscia dell’altro e cerca di fornire una risposta di speranza, di fiducia. Cerco che ogni azione che compio nel pianeta-carcere trovi senso nel contesto della testimonianza di quell’Amore crocifisso che alimenta la mia vita e la mia speranza. Quando, a gennaio del 2003, il Vescovo di Trieste mi ha inviato in carcere, ne ho dato notizia al card. Martini, compagno di passeggiate in Alta Valtellina. Mi ha risposto così: “…Mi congratulo per il ministero nel carcere, che è quello che io ho amato di più, come il più bello e fruttuoso. Tuo in Cristo.” Lentamente, dentro di me, si va facendo strada la chiarezza della bellezza di una “pattumiera” tanto amata da Martini.
Silvio Alaimo
Cappellano della Chiesa Circondariale di Trieste