Mal di carcere

Di fronte ad un evento come il suicidio o l’autolesionismo, in mancanza di luoghi di elaborazione delle emozioni, la strada difensiva attuabile individualmente è il “distacco emotivo”. Ma queste sono difese non sempre adeguate al compito di tutela e mai al compito di riposizionamento sociale del detenuto.

Le rappresentazioni del carcere sono per lo più cupe. Rimandano a violenza e isolamento. In realtà, si sa poco della vita in carcere, sia dalla parte del detenuto, sia dalla parte di chi ci lavora. Sembra un luogo non adatto alle parole, senza immagini, con un quotidiano “relegato” lontano dalla vita dei cittadini. Noi lavoriamo da anni con il personale delle diverse qualifiche e possiamo dire di aver condiviso con loro fatiche e frustrazioni. Ma anche la speranza che qualcosa cambi e che si possa cominciare a lavorare con soddisfazione e riconoscimento maggiori. Partendo dalla nostra conoscenza, vogliamo aprire una riflessione su un aspetto particolare e poco approfondito della difficoltà di lavorare in carcere: l’aspetto emotivo. In un’organizzazione, la condizione di benessere è fortemente correlata al livello di ansia che si muove al suo interno: ansia primitiva, legata al bisogno di appartenenza, riconoscimento, identità; ansia legata all’Oggetto di lavoro; ansia personale, legata alla storia personale di ciascuno. Un certo livello, contenuto, di ansia è fisiologico. Anzi, è utile a promuovere ricerca ed innovazione. Ma quando è troppo alto, si ripercuote negativamente sul raggiungimento degli obiettivi, sulle relazioni interpersonali, sulla motivazione al lavoro e permea tutto il contesto. In questo caso, il benessere si trasforma in malessere… e in carcere, il “mal di carcere” è palpabile quando si entra in contatto con chi ci lavora. Proviamo a capire ancora un po’ meglio cosa succede, riflettendo sul Compito affidato a questa Istituzione. Al carcere viene affidato un compito di “contenimento” degli oggetti cattivi, di “bonifica” e “riparazione”, di delega ed attesa magica, con una rappresentazione sociale culturalmente scissa: “i cattivi dentro” e i “buoni” fuori. Al personale viene richiesto un doppio compito, apparentemente inconciliabile: Sicurezza per la Polizia penitenziaria (contenimento e punizione) e trattamento per l’area educativa (aspetti magici).

I primi percepiscono di avere un ruolo di controllori e di essere visti solo in un ruolo di controllori, ridotti a meri esecutivi: “apri e chiudi, ma non pensare” veniva detto ad un agente neoassunto. È come essere incastrati a fare solo il “lavoro sporco”, frustrante, stressante e svalorizzante. I secondi, invece, gli educatori, si sentono in difficoltà rispetto ad un ruolo “magico”, che sentono inaffrontabile per la situazione in cui operano: pochi, con pochi strumenti, isolati dal contesto e penalizzati dalla scarsa valorizzazione culturale dei saperi propri delle scienze psico-sociologiche. Il compito dell’Amministrazione penitenziaria è, in realtà, solo apparentemente doppio e contraddittorio. Nella realtà, la sua declinazione concreta necessita di un lavoro fortemente integrato ed il trattamento può “funzionare” solo se tutti i professionisti lo sentono come una parte del loro lavoro. Questo richiede uno sforzo di tipo organizzativo e culturale, che l’istituzione raramente è pronta a fare. Gli episodi di aggressività e di violenza, così presenti dentro alle mura, ingaggiano gli operatori in un corpo a corpo che, in modo emotivamente rilevante, li mette a contatto con lo “sporcarsi le mani” con l’oggetto Violento. La presenza di procedure rigide da applicare “senza farsi troppe domande” rimanda al tema della colpa, implicito nell’oggetto di lavoro e nel compito primario nascosto dell’istituzione: “controllo” e “sanzione”. Di fronte ad un evento emotivamente inaffrontabile, come il suicidio, o l’autolesionismo, in mancanza di luoghi di elaborazione delle emozioni, la strada difensiva attuabile individualmente è il “distacco emotivo”.

È un fare il callo. Ma queste sono difese non sempre adeguate al compito di tutela e mai al compito di riposizionamento sociale del detenuto. Di fronte a questo “controllo” apparente, le emozioni dove si sedimentano? Diventano “anestesia” o si “raggrumano” nel corpo, generando somatizzazioni o depressione. Spesso, il mal di carcere prende queste vie, non potendo praticare la via della parola. La nostra esperienza con equipes trattamentali ci ha mostrato come sia difficile parlarne perché, quando finalmente lo si fa, emerge una componente emozionale intensissima. Quando c’è rimozione dell’emotività, considerata “debolezza”, emerge difficoltà a parlare di sé e dei propri problemi con gli altri. La negazione delle proprie fragilità limita la comunicazione, ma rende anche difficile avvicinare le emozioni che il detenuto ci porta e sviluppare con lui una relazione, l’unico strumento a disposizione per tentare un cambiamento. Così, per tutta la detenzione, si evita di pensare ad un suo riposizionamento nel sociale. Si pensa solo al suo contenimento. L’allarme scatta quando le porte stanno per aprirsi e si percepisce tutto il rischio di un’uscita senza rete. È a partire da questo che ci sentiamo di parlare di “mal di carcere”, che non è altro che il rapporto tra la fatica e l’investimento che i professionisti tentano di mantenere all’interno e ciò che dall’esterno si vede e ritorna loro come “prodotto” di queste fatiche. È difficile pensare che il clima generale del Carcere possa migliorare senza affrontare alle radici il malessere degli operatori penitenziari e dell’Istituzione stessa.

Donatella Piccioni
Formatrice, gestione delle risorse umane,
comunicazione organizzativa e interpersonale

Emma Melloni
Formatrice, sociologa, esperta in formazione
e counseling organizzativo

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