Il rapporto con il proprio corpo e lo stato di salute sono un grave problema della donna in stato di detenzione. In molte detenute sono riscontrabili i segni di disagi psichici e fisici di chi perde il controllo della propria fisicità. La detenzione, recidendo i contatti con le persone amate, provoca anche una sorta di disinteresse per la propria salute.
Iniziamo con i numeri, tratti dal Dossier sulle carceri italiane curato dal Partito Radicale nell’agosto scorso. Sulle 215 case circondariali che hanno compilato il questionario, il numero delle donne detenute risulta essere di 2.689 unità su un totale di 62.377. Di queste, 488 sono tossicodipendenti, 146 in terapia metadonica e 114 sieropositive. Tra i detenuti stranieri, le donne sono 939 su un totale di 22.089. L’esiguo numero -sostanzialmente la popolazione detenuta femminile in Italia oscilla da sempre tra il 4% e il 5% del totale, non superando mai questa soglia- spiega, ma solo in parte, lo scarso interesse per la detenzione femminile. La maggior parte dei problemi che le donne si trovano ad affrontare, durante la detenzione e al momento del loro reingresso in società, è diretta conseguenza del cronico sovraffollamento di cui soffrono i sistemi penitenziari italiani.
Questo è determinato, in massima parte, dalle presenze maschili ed è subito anche dalle donne, a causa della gestione amministrativa unitaria di prigioni e sezioni maschili e femminili. Le donne detenute ed ex detenute presentano problematiche peculiari, legate alla loro condizione di genere -prime fra tutte, ma non unicamente, quelle sanitarie e quelle legate alla maternità- per far fronte alle quali si rivelano inadeguati gli strumenti utilizzati per gli uomini. Dai pochi numeri a disposizione, ci rendiamo conto che tale stato riguarda prevalentemente i reati connessi agli stupefacenti, con pene in genere brevi, anche se recidive. Sia per le donne di nazionalità italiana, sia per quelle straniere (soprattutto di etnia rom), i reati connessi agli stupefacenti e le rapine si accompagnano all’esperienza della tossicodipendenza ed ai processi di marginalità che questa comporta. Spesso, le straniere in carcere per detenzione e spaccio sono in prevalenza corriere della droga, al primo impatto con la giustizia. Il tasso di recidività indica, inoltre, che la detenzione non riesce ad interrompere il precedente modus vivendi e non svolge alcuna funzione rieducativa.
Le donne, mediamente, scontano pene di lunghezza molto inferiore a quelle degli uomini. La maggior parte non supera i cinque anni. Ci troviamo, quindi, di fronte a donne che passano in carcere periodi brevi, ma, purtroppo, ripetuti. L’ennesimo esempio del fallimento dell’esperienza carceraria in termini di rieducazione, dove la detenzione contribuisce ad acuire modalità di vita sempre al limite della legalità. Questo è più evidente se verifichiamo il numero delle donne lavoratrici. A fronte di una scarsità di possibilità lavorative, il numero delle donne impiegate è irrisorio: 78 su un totale di 793 detenuti lavoranti in carcere per conto di imprese e cooperative; 1 su un totale di 51 detenuti semiliberi che lavorano in proprio; 26 su un totale di 776 detenuti semiliberi che lavorano per datori di lavoro esterni; 650 su un totale di 10.850 detenuti dipendenti dall’amministrazione penitenziaria. Tale scarsità delle risorse lavorative rende ancora più difficile ottenere la concessione di misure alternative.
L’accentuato turnover non permette la programmazione di una qualsiasi attività di recupero efficace. Ad aggravare la situazione, è l’esistenza di poche carceri femminili. Le donne detenute in Italia, infatti, si trovano assegnate in sette istituti femminili (Trani, Pozzuoli, Rebibbia, Perugia, Empoli, Genova, Venezia) e in 62 sezioni all’interno di carceri maschili. Questo comporta che molte detenute, dopo il processo, siano trasferite in penitenziari lontani dal luogo di residenza della famiglia, con gravi conseguenze per i figli. Inoltre, la suddivisione delle detenute in unità molto piccole provoca una sostanziale mancata applicazione della legge che dovrebbe regolamentare la detenzione femminile. Attualmente, il carcere è, sia per quanta riguarda le strutture, sia per i regolamenti interni, identico per entrambi i sessi, senza alcuna tutela né della soggettività, né della necessità di tutelare i figli piccoli. Anche se pochissime donne detenute accettano di parlare dei problemi connessi alla maternità, risulta evidente che una tale situazione comporta un percorso di disagio e dolore di fronte ad un distacco che, nel tempo, diventa difficile recuperare. Altro problema è quello rappresentato dai bambini ospitati, anche se temporaneamente, in strutture penitenziarie (sono circa 70 i bambini al di sotto dei tre anni di età che si trovano in carcere con le loro madri, tanto in prigioni interamente femminili, quanto in sezioni ospitate all’interno di prigioni maschili). Appare, a tutti i livelli, una pratica inutile e contraria al rispetto dei diritti umani.
Anche se può apparire secondario, ma non lo è, il rapporto con il proprio corpo e lo stato di salute sono un altro grave problema della donna in stato di detenzione. In molte detenute sono riscontrabili i segni di disagi psichici e fisici di chi perde il controllo della propria fisicità. La detenzione, recidendo i contatti con le persone amate, provoca anche una sorta di disinteresse per la propria salute. È un rifiuto di qualsiasi aiuto o assistenza necessaria. Come ha dichiarato a più riprese Angiolo Marroni, Garante dei diritti dei detenuti nel Lazio, anche se le ultime riforme hanno lievemente intaccato la secolare separatezza del carcere dalla società, quest’ultima è ancora troppo distante e non vuole farsi carico delle responsabilità che comporta il recupero del detenuto. Anzi, le ultime iniziative legislative tendono ad un’accentuazione del percorso penale che allontana ancor di più la realtà carceraria come realtà sociale.
La politica penale e penitenziaria italiana, oggi, secondo la sociologa Tamar Pitch, oscillerebbe, purtroppo, verso un polo repressivo, chiedendo più carcere, e carcere duro, come risposta all’allarme della criminalità organizzata, o a forme di disagio sociale che nulla hanno a che vedere con il crimine in senso stretto (ultima, in ordine di tempo, il percorso penale che dovrebbe coinvolgere gli immigrati non in regola con il permesso di soggiorno). Una bizzarria criticabile, tipica di una società che tende a far scomparire le linee di divisioni in nome di una fluidità economica, sociale, culturale ed ideologica. Una società liquida, come è stata definita da Zygmunt Bauman, dove l’integrato è chi si percepisce parte della modernità, in termini di consumismo e di totale perdita di sicurezza sociale, mentre il povero, non riuscendo ad essere accettato nel ruolo di consumatore compulsivo, tende a rigettare le proprie frustrazioni attraverso l’esclusione coatta del diverso (ladro, delinquente, pericoloso), detenendolo all’interno di gabbie fisiche e mentali. A pagare il prezzo più alto, come sempre, le donne, tossicodipendenti, straniere, delinquenti.
Bianca La Rocca
Responsabile dell’ufficio stampa di Sos Impresa Confesercenti