Il fallimento dell’interazione fra carcere e società è dovuto alla scarsità di interventi per ridurre le recidive, alla poca attenzione nei processi di risocializzazione, alla residualità del sistema di pene “alternative”.
Il mio contributo vuole porre l’attenzione su tre questioni pragmatiche che rendono, a volte, fallimentare la volontà di costruire un’interazione tra carcere e società finalizzata al reinserimento in quest’ultima. Ci sono ben altre questioni che coinvolgono l’esistenza stessa, nella forma attuale, del sistema di espiazione della pena, le condizioni proibitive di vita in carcere, e così via. Non le sottovaluto, certo. Semplicemente, le considero più importanti di queste tre, ma, sostanzialmente, bloccate nella loro possibilità di produrre, per ora, proposte fattibili. Le tre questioni che voglio sottolineare sono le seguenti: la scarsità di interventi sul versante della modifica della rappresentazione sociale del carcere, del carcerato, della pena ecc. e il fatto che tutto ciò produca difficoltà sul versante della risocializzazione e della diminuzione delle recidive; la poca attenzione che viene posta, nei processi di risocializzazione, al complesso di competenze e capacità che i singoli detenuti possiedono per affrontare con successo quel processo per loro così importante e difficile; la residualità, ancora oggi, del sistema di pene “alternative” alla detenzione, quale pratica attuativa del dettato costituzionale. Iniziamo dalla prima. L’immagine e il giudizio sul carcere (e ciò che rimanda a quello), nella società, è pessimo. Paura, rifiuto, indifferenza, recriminazione, e qualsiasi altro sentimento collettivo negativo la fanno da padrone. Il risultato è sotto l’occhio degli addetti ai lavori: difficoltà di ogni genere ad ottenere attenzione positiva, risorse, opportunità per le politiche e le pratiche di reinserimento sociale. I vari comitati Carcere e città e le tante cooperative sociali che si occupano di reinserimento e attenzione ai detenuti sono interlocutori quasi mai considerati dai mass media o, se lo sono, ciò accade quando qualche detenuto a loro affidato compie un reato, scappa, ecc. Come si fa a re–inserire un soggetto in un contesto che non lo vuole e lo rifiuta? Ci si riesce solo se lo si fa senza che quel contesto se ne accorga.
Di nascosto… alimentando così e confermando proprio quel rifiuto di quel contesto. Modificare una rappresentazione sociale è cosa molto difficile, ma, in questo caso, indispensabile. Si dovrebbe cominciare, tramite progetti ad hoc, a “far fare l’esperienza del carcere” ai cittadini, in particolare a quelli più giovani. Non è così difficile. Si tratta, ad esempio, di allestire una simulazione in una spazio appositamente destinato nella città, a cui il pubblico possa accedere in maniera guidata. Un percorso tipo “labirinto”, all’interno del quale, attraverso l’applicazione della tecnica delle “differenze cognitive”, si attivino emozioni e successive riflessioni in relazione all’esperienza carcere e a come la città, nella sua parte istituzionale e non, si relaziona o potrebbe relazionarsi. Si tratta di dar seguito a questo nella scuola e nel mondo associazionistico e religioso. Insomma, si tratta di mettere in atto una vera e propria strategia a medio e lungo periodo finalizzata al cambiamento dell’immagine e del giudizio e alla conoscenza della vera realtà della questione carcere. Esperienze di questo tipo si sono realizzate in ben poche città, ma con grande successo. Vediamo ora la seconda questione. Provate a fare la lista delle competenze e capacità che un detenuto deve possedere per avere una buona probabilità di performance in un processo di reinserimento sociale. Eliminate quelle che riguardano essenzialmente gli aspetti tecnici del processo in questione. Vi resterà una lista con item quali capacità di reggere la frustrazione, posticipare il piacere e la ricompensa, contenere gli acting out, rifarsi una rete sociale con soggetti completamente diversi da quelli di matrice deviante avuti in precedenza, saper mediare… Pensate ora alla composizione dell’attuale popolazione carceraria: tossicodipendenti che sicuramente posseggono la capacità innata di posticipare il piacere, extracomunitari con molta competenza nella mediazione, camorristi, ecc. con un’indubbia tensione alla costruzione di una rete di rapporti completamente diversa da quella di prima. Sono volutamente ironico poiché voglio sottolineare come non sia affatto sufficiente, per garantire il successo di un processo di socializzazione, l’acquisizione di un mestiere e l’appoggio di qualche volontario.
Occorre, non solo lavorare sull’acquisizione di quelle capacità e competenze, ove non sufficientemente adeguate, ma anche presidiarle durante le prime fasi del processo. In questo senso, il tutoraggio deve uscire dalla logica del puro accompagnamento e diventare supporto vero e proprio al processo di risocializzazione, sia attraverso la costante elaborazione dei vissuti del soggetto, sia attraverso l’aiuto alla costruzione di una nuova rete sociale per il medesimo. L’intermediazione sociale mi pare una questione su cui riflettere e investire, se davvero si vuole realizzare il più pienamente possibile il dettato costituzionale. Veniamo ora alla terza questione. Tutto ciò che ho sin qui esposto resta parola residuale se non si affronta con decisione la questione delle pene alternative alla detenzione. Decenni di successo (incredibili nelle sue percentuali) della legge Gozzini e varianti successive non hanno ancora inciso su un approccio alla definizione della pena che veda la sua forma detentiva come una delle tante praticabili. Mi pare che tre sono le ragioni di questo stallo. La prima è da ricondurre al ritardo che deriva dall’eccessiva ideologizzazione della discussione. Se il dettato della carta costituzionale va rispettato, l’attivazione del massimo possibile delle pene alternative è il modo per farlo. Punto. Non è questione ideologica, è questione logica e basta. La seconda difficoltà risiede nella scarsezza di opportunità, risorse e tecnologie per attuarle. La vicenda del braccialetto elettronico è paradigmatica. La terza riguarda complessivamente il sistema giustizia e la sua lentezza e complicazione (ma su questo, altri meglio di me hanno già detto molto). V’è, infine, un’ultima questione, trasversale alle tre suddette: una concezione prevalente della pena ancorata ad una visione pre-carta costituzionale. Fino a quando la pena sarà intesa come deterrente al crimine, tramite il suo carattere di minaccia, espiazione o, come sistema rieducativo, finalizzato al cambiamento della tendenza a delinquere del detenuto o, addirittura, come vendetta sociale, ben difficilmente una cultura della cura come controllo e processo di risocializzazione avrà spazio. Se il fine del sistema resta “sorvegliare e punire”, qualsiasi discorso e pratica di risocializzazione è vana. Per questo mi pare che la questione del cambiamento della rappresentazione sociale del carcere, del detenuto, della pena e di quant’altro ad essa legato sia prioritaria. Al di là, sia ben chiaro, di qualsiasi epistemologia maieutica o buonistica, ma anche al di là di ogni ingenuità giustizialista.
Roberto Merlo
Psicoterapeuta e consulente per enti locali sul carcere