Dignità Sociale

La vicenda triste e dolorosa della morte di Stefano Cucchi ha riportato l’attenzione della stampa nazionale ed estera sul pianeta carcere, che rimane, per i più ed aggiungiamo noi i benpensanti, un mondo distante, lontano dalla propria vita e dalle proprie abitudini e con il quale è preferibile non averci a che fare.

Non è mia intenzione parlare di questa morte, che rimane un fatto grave, come tutte le morti accadute in carcere e sulla quale la magistratura saprà fare i necessari approfondimenti per arrivare alla verità, e quantomeno a quella processuale, dovendosi assicurare a tutti i detenuti un trattamento rispettoso della persona e della dignità umana.
Non è dato però di dubitare, anche se in via generale e prescindendo naturalmente dal caso specifico, della correttezza di comportamento dei direttori delle carceri, che rimangono l’unico ed insostituibile presidio di legalità all’interno delle stesse, e della polizia penitenziaria in generale, che con i sacrifici di ogni giorno e con la propria abnegazione, consente alla struttura di assolvere ai delicati compiti cui la stessa è preposta. L’occasione è peraltro propizia per parlare del dopo-carcere, del reinserimento del condannato nel tessuto sociale, dal momento che questo aspetto è stato, sinora, trascurato e quanto meno non illuminato a sufficienza dagli addetti ai lavori. A norma dell’art. 27 della Carta costituzionale, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Diverse e specifiche, anche se di rango non costituzionale, le disposizioni della legge 354/1975 al riguardo:
– il trattamento rieducativo deve tendere, attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale dei condannati e degli internati, attuato attraverso un criterio di individualizzazione (cfr. art. 1);
– il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto (cfr. art. 13);
– il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, etc;
– ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato ed all’internato è assicurato il lavoro (cfr. art. 15);
– negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione ai corsi di formazione. (cfr. art. 20).

Normalmente, la struttura carceraria si è preoccupata e si preoccupa tuttora della rieducazione del condannato, adibendolo, nella generalità dei casi e per chi lo voglia, ad un’attività lavorativa, che gli permetta, una volta uscito dal carcere, di affrontare il quotidiano e cosi di non delinquere più. Detto problema deve essere, ad avviso dello scrivente, rivisto, sia con riferimento all’espletamento del lavoro all’interno della struttura carceraria, sia con riferimento alla prosecuzione del lavoro all’esterno della struttura stessa. A differenza di quanto avviene oggi, il lavoro, vuoi interno alla struttura, come preferibile, vuoi esterno, deve essere imposto (e non solo assicurato) a tutti i detenuti, dal momento che non ci può essere rieducazione se non attraverso il lavoro, posto che solo il guadagno lecito derivante dall’espletamento del lavoro costituisce remora per continuare a delinquere. Naturalmente, il lavoro deve essere retribuito, se non in toto, in parte, in ossequio al principio costituzionale dell’art. 36, che vuole come la retribuzione corrisposta sia proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e, nel contempo, comunque sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Sul punto, e qui nascono le note dolenti, il lavoro è prestato non da tutti, ma da una percentuale che oscilla dal 20% al 30% della popolazione carceraria, percentuale bassa e comunque volontaria, con retribuzioni assicurate per i 2/3 della paga sindacale, attesa la nota congiuntura economica e la difficoltà, per il Governo, di recuperare fondi da destinare a questo scopo. Al riguardo, il problema potrebbe essere risolto prescrivendo il lavoro per tutti e retribuendolo possibilmente con danaro, distraendo a questo scopo fondi provenienti da sequestri o confische penali, ovvero, in alternativa, con sconti di pena o permessi premiali, previa rivisitazione dell’art. 36 della Costituzione, rivisitazione dettata dalla difficoltà, per lo Stato, di reperire fondi per lo scopo in una con la necessità di imporre a tutti di lavorare.

Da ricordare che il nostro ordinamento giuridico, ed in special modo quello penale, conosce più di un’applicazione di legislazione premiale, posta in essere soprattutto per deflazionare il processo penale (giudizio abbreviato, con riduzione, in caso di condanna, della pena per 1/3; applicazione della pena su richiesta delle parti, con diminuzione ancora della pena di 1/3) e problemi non ve ne sarebbero in ambito penitenziario, attesa che la stessa legge 354/1975 è ispirata a legislazione premiale (permessi premio ed affidamento in prova al servizio sociale). E questa si che sarebbe una vera novità, anche se di novità vera e propria non trattasi, dal momento che tutta la legislazione penitenziaria, ed in special modo quella relativa alla legge 354/1975, è tutta protesa a premiare il detenuto. Superato questo primo scoglio, lo Stato, per il tramite dell’amministrazione Penitenziaria ed in primis dei direttori della struttura, si dovrebbe preoccupare anche del dopo, naturalmente limitato nel tempo (due anni?), seguendo concretamente il condannato nel reinserimento sociale e mantenendo i contatti con gli Enti Locali, in guisa da completare la restituzione del condannato stesso alla società. Naturalmente, anche qui i problemi non mancherebbero, e sarebbero di natura economica, prima ancora che organizzativi, nascenti dalla difficoltà di continuare a seguire la persona nel suo reinserimento sociale. Uno Stato moderno non può e non deve rinunciare alla rieducazione del condannato, rieducazione nel senso or ora proposta e che guarda sia alla necessità di assicurare il lavoro nell’ambito della struttura carceraria, sia all’inserimento del condannato nel tessuto sociale, nella convinzione di assicurare anche a coloro che sbagliano “dignità sociale” pari a quella goduta da ciascuno nell’ambito della collettività. Né ci si può sottrarre a detto obbligo, adducendo a pretesto, vero o presunto, la mancanza di fondi da destinare o destinati a questo scopo, posto che il futuro della nostra società dipende dal rispetto concreto dei diritti umani e sociali, tra cui rientra, ed a pieno titolo, il diritto alla rieducazione sociale.

Silverio Tafuro
Magistrato, Consigliere Corte d’Appello

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