Automobili, case e tratti autostradali saltati in aria, traffici internazionali di droga, estorsioni a danno di imprenditori, ecomafie, associazioni che riciclano capitali “sporchi” in altrettante attività estere; sono tutti spunti che dovrebbero far riflettere chi considera “duro” il regime di cui all’art. 41 bis.
Sento sempre più spesso parlare di 41 bis e carcere duro, di trattamenti disumani ai quali sarebbero sottoposti i detenuti appartenenti a tale circuito. L’attenzione dell’opinione pubblica al sistema carcere ed al trattamento riservato ai propri “ospiti” rappresenta, senza dubbio, un indice importante del grado di civiltà di un Paese. Il miglioramento delle condizioni di vita ed il potenziamento della funzione rieducativa della pena costituiscono attuazione dei principi descritti a chiare lettere dall’art. 27 della Costituzione. Tutto condivisibile, fino a questo punto, tutto auspicabile, fino a quando non si percepisce, agli occhi di un osservatore più attento, il pericoloso rischio di cadere in quel “buonismo” tipicamente italiano, nel quale siamo abituati a cullarci, con il pessimo vizio di dimenticare. Dimenticare che esistono delitti diversi, modi di delinquere diversi, modi diversi di porsi in modo deviante rispetto allo Stato. Dimenticare che esiste un “antistato”, senza scrupoli, senza limiti, senza remore, senza pudore. Tutto ciò fino a quando altre tragedie, altri fatti gravissimi accadranno di nuovo. Allora, da “buonisti” diventeremo “forcaioli”, lasciandoci convincere, di volta in volta, dall’una o dall’altra abile penna di chi ha il privilegio di scrivere facendo conoscere a tutti il proprio pensiero. In tal modo, perdiamo di vista la freddezza e la razionalità nell’affrontare certi problemi, certe responsabilità. Perdiamo l’equilibrio e oscilliamo tra i due atteggiamenti estremi, frutto di passione, e non derivanti da un approccio razionale.Troppo spesso si sentono lamentele rispetto al sistema-giustizia italiano. Troppo spesso si sente dire che l’unica certezza della pena in Italia è quella riservata alle vittime. È dunque più che mai opportuna una riflessione, per chiarire, finalmente, quali sono le finalità del 41 bis, e gli interessi, supremi ed assolutamente degni di nota, che esso è chiamato a tutelare. Si rifletta, innanzitutto, sul cosiddetto regime “duro”. Si parla di isolamento: non è vero.
I detenuti fruiscono delle ore d’aria e delle ore di socialità/palestra o altre attività a gruppi di quattro. Vengono generalmente ubicati in celle singole: in tempi di sovraffollamento, come quelli attuali, può definirsi un privilegio, rispetto agli altri detenuti. Essi condividono in dieci celle progettate per ospitare due, o al massimo quattro persone. Sono costretti a confrontarsi ogni giorno con compagni di detenzione che hanno culture, abitudini, religioni diverse, con tutti i disagi connessi. Disagi sconosciuti ai detenuti 41 bis. L’isolamento diurno ex art. 72 c.p., cui alcuni detenuti 41 bis sono sottoposti, non deriva certo dall’applicazione del regime speciale, ma costituisce specifica condanna inflitta dall’Autorità Giudiziaria, in relazione all’entità della condanna principale, a prescindere dal 41 bis. Si parla di divieto di socialità: non è vero. Svolgono un’ora di socialità al giorno, a gruppi di quattro. Si parla di restrizioni e condizioni disumane: non è vero. Si parla di impossibilità di lavorare: non è vero. Chi lo richiede, viene ammesso ad attività lavorative domestiche compatibili con il regime. Tutte le limitazioni sono funzionali esclusivamente ad impedire i contatti con la propria organizzazione criminale, a scopo preventivo. Si sentono molte falsità e la cosa peggiore è che le falsità provengono proprio da chi, per dovere professionale, dovrebbe avere almeno l’umiltà di documentarsi. Ci si dimentica, appositamente, di quanto siano pericolosi, fuori ed anche dietro le sbarre, questi soggetti, privi di scrupoli nel delinquere e nel seminare morte. Troppo spesso ci si dimentica delle loro vittime. O di coloro che vorrebbero, almeno, un po’ di silenzio per piangere i loro morti ammazzati e invece sono costretti ad assistere perfino a fiction televisive ove i carnefici finiscono per sentirsi addirittura celebrati.Ci si dimentica di coloro che, dopo diversi anni, non hanno ancora ricevuto un euro di risarcimento per il danno subito dalla perdita di genitori, figli, fratelli, in nome di una logica spietata. Non si riflette mai sul fatto che, in ogni caso, la lotta dello Stato contro la criminalità, ed in particolare contro quella organizzata, è una lotta ad armi impari, sempre. Una lotta tra la regola e la mancanza di regola non può non essere ad armi impari.
Tale riflessione non muove da un desiderio di vendetta, che deve essere estraneo ad un Paese civile, ma dall’esigenza di ricomporre gli equilibri di un rapporto, quello tra Stato e criminalità organizzata, che parte sempre dallo svantaggio dello Stato nel dover utilizzare (giustamente e guai se fosse altrimenti) strumenti leciti e previsti dalla legge, contro organizzazioni nelle quali la “non regola” assurge a codice di comportamento, ove il desiderio di potere, di predominio, di denaro, “giustificano” i comportamenti più aberranti e contrari (questi si) al senso di umanità. Fa sorridere amaramente, nonostante tutta la capacità possibile di guardare le cose con distacco, sentir pronunciare parole come umanità e dignità da coloro che con vigliacca freddezza (quella si priva di ogni senso di umanità) hanno azionato i telecomandi delle stragi, fumando distrattamente una sigaretta, come se stessero azionando il joystick di un videogioco, seminando morte, sangue, tragedia e dolori insanabili ed irrimediabili. Lo Stato può solo cercare di fermare questa ferocia e tutta la ferocia che c’è dietro gli odiosi crimini commessi dalla criminalità organizzata, impedendo a soggetti di una pericolosità inaudita di continuare, anche dal carcere, grazie ad organizzazioni paragonabili solo a quelle di grandi e potenti aziende, a perpetrare crimini aberranti, nell’esclusivo interesse (scusate se sembra poco) di prevenire altre sofferenze ed altre tragedie. Automobili, case e tratti autostradali saltati in aria, traffici internazionali di droga che rendono fino a 500.000 euro al giorno, sulla pelle di giovani tossicodipendenti, estorsioni a danno di imprenditori, ecomafie che indisturbate inquinano e rovinano irreversibilmente territori ed ambienti, associazioni che riciclano capitali “sporchi” in altrettante attività estere, velocemente – senza che lo Stato abbia neppure il tempo di confiscare o sequestrare – il cui potere organizzativo è oltremisura superiore a quello dello Stato stesso, con disponibilità economiche direttamente proporzionali alla spregiudicatezza con cui commettono i reati peggiori.
Sono tutti spunti che dovrebbero far riflettere chi considera “duro” il regime di cui al 41 bis. Se ciò non basta, si possono aggiungere ville sontuose, vacanze nei villaggi più costosi, automobili, lussi, latitanze dorate, conseguiti e goduti sulla pelle degli onesti cittadini e perfino sulla pelle dei servitori dello Stato, che sicuramente guadagnano stipendi inferiori a quelli percepiti dalle loro “guardie del corpo” e dai loro sicari. Lussi neppure pensabili per chi viva di lavoro onesto. Organizzazioni che hanno letteralmente rovinato, devastato, le zone in cui hanno operato, con disastri ambientali, orrori edilizi, che quotidianamente minano la tranquillità e la serenità di tanta gente onesta, dovrebbero poter continuare, anche dal carcere, ad impartire ordini funesti, di morte, di illegalità e di distruzione… Per quale motivo? Domandiamoci finalmente perché, tra i due interessi, quello del delinquente organizzato e quello dell’onesto cittadino (spesso vittima del primo), debba prevalere sempre, in fin dei conti, quello del delinquente organizzato, in nome poi di principi umanitari che nessuna norma, neppure il famigerato 41 bis, nega. È proprio sul piano del confronto tra interessi diversi che è necessario riportare la discussione sul 41 bis. Una volta effettuato tale confronto, è necessario operare la scelta: quale interesse è prevalente? Una comunità che ha già subito deve continuare a subire ancora? La legalità è la strada della credibilità di uno Stato, tanto più forte quanto più è giusto, al di là di ogni atteggiamento forcaiolo o buonista, pericolosi entrambi, perché entrambi perdono di vista le sofferenze delle vittime e l’importanza di tutelare, in primis, chi il torto lo ha subito. Dobbiamo attendere altri Capaci o Via D’Amelio, altre stragi nelle strade campane, per recuperare la “passione forcaiola”, che non è mai appartenuta agli operatori penitenziari, o non possiamo, in modo molto più equilibrato, riconoscere che il 41 bis è l’unico strumento lecito e possibile per impedire, o, quantomeno, tentare di impedire altre Capaci e Via D’Amelio (citate, ovviamente solo a titolo di esempio quali episodi eclatanti, per non appesantire lo scritto con un elenco che potrebbe occupare centinaia di pagine e non certo per voler dare meno risalto ad episodi in cui sono morte persone “meno conosciute”).
Oppure dobbiamo soprassedere nel presupposto che siano vere ed attendibili le affermazioni di Salvatore Riina che, in occasione della commemorazione della strage di Via D’Amelio, ha dichiarato che Paolo Borsellino “l’ammazzarono loro”.Loro sarebbero i “servizi segreti”, l’entità grigia che spunta sempre quando nel nostro Paese non si riescono ad individuare responsabilità precise di eccidi terribili che nascondono dietro alla violenza progetti ben precisi, semmai finalizzati a fare pressioni sulla politica se non tentare di farne parte a pieno titolo, o di costruire singolari alleanze economiche. E dunque anche i mafiosi “esecutori”, quelli che noi teniamo “a carcere duro”, appaiono nella loro presumibile veste di meri esecutori, anch’essi servi di un potere, il peggiore, quello occulto, quello subdolo, quello che si nasconde dietro proclami di democrazia. Anch’essi appaiono come i ridicoli personaggi di una commedia dell’assurdo, dove si fa solo finta di combattere la mafia con “restrizioni” irrilevanti per i ladri di polli della mafia stessa, per le ultime pedine di un sistema che, in realtà, ha ai propri vertici -c’è chi afferma abbiano- il famoso “terzo livello”. Allora tutto appare quasi inutile: non si combatte il traffico internazionale di droga se si continuano ad arrestare e punire solo gli spacciatori finali. La mafia non si combatte continuando ad arrestare “gli ultimi”, mentre “i primi” si nascondono dietro ipocrite battaglie di difesa dello Stato… Stato… che non appartiene più ai cittadini. Lo Stato è diventato un’entità grigia, gestito a suon di ombre e segreti, scatolone degli interessi personali di pochi (a qualsiasi corrente politica appartengano), che fingono di tutelare gli interessi dei più. Ma attenzione: anche tutto questo nasconde un pericoloso rischio di deviazione.
Le mafie calabresi del traffico internazionale di droga, che si sono impadronite di gran parte del Nord Italia, di intere regioni della Scozia, che sono padrone di interi territori in Germania, sono fuori da questi giochi e sono assolutamente indipendenti dal terzo livello, dopo essersi serviti di esso, semmai, per ottenere favori e comodi utili alle loro attività criminose, non meno spietate. Sono fuori da contaminazioni di servizi segreti o deviati (termini divenuti, negli anni, quasi sinonimi). Esercitano il loro potere criminale in modo assolutamente indipendente. Non hanno infiltrati politici, semmai appoggi occasionali dei quali si servono ed ai quali non sono asserviti. È giunta dunque l’ora di assicurare il dovuto rispetto a tutti quei poliziotti che, per la strada, rischiano la vita per cercare di catturare e neutralizzare i boss, e che, in carcere, lavorano tutti i giorni per cercare di impedire che gli stessi boss, la cui capacità organizzativa supera ogni possibile immaginazione, continuino a “comandare” da dietro le sbarre… loro, che si definiscono “uomini d’onore”. Sì, proprio onore: una parola che apparterrebbe in realtà alla gente perbene e che, invece, è stata brutalmente scippata e snaturata nel significato… …ad armi impari, sempre.
Silvia Della Branca
Direttore del carcere di Tolmezzo,
Dirigente Sindacale Nazionale del SI.DI.PE