Una ricerca problematica

L’unica terapia disponibile in clinica in grado di ricostruire il patrimonio beta cellulare del paziente diabetico è il trapianto allogenico/autologo di cellule beta. Ciononostante la ricerca sulle cellule staminali per la terapia del diabete è un settore di grande interesse, ma siamo ancora lontani dall’applicazione sull’uomo.

In tutte le sue forme (tipo 1 e tipo 2), il diabete affligge almeno 200 milioni di persone nel mondo, di cui circa il 10% sono pazienti con diabete mellito di tipo 1. Sia il diabete mellito di tipo 1, sia quello di tipo 2 hanno in comune un deficit della massa delle cellule beta, cellule che producono l’insulina e che risiedono nel pancreas, all’interno di micro-organi denominati Isole di Langerhans. I dati storici riportano una distruzione stimata tra il 67 ed il 90% della massa beta cellulare originale nel paziente diabetico di tipo 1 all’esordio e, recentemente, alcuni studi hanno confermato un deficit del 75% rispetto ai controlli sani. Analogamente, anche nel diabete di tipo 2 è dimostrata l’esistenza di un deficit della massa beta cellulare, che negli stadi tardivi può essere ridotta del 50% circa rispetto ad un soggetto normale. Seppur principalmente derivato da due eventi eziopatogenetici differenti (risposta autoimmune e insulino-resistenza), in tutte le sue forme, il diabete si configura come un deficit di cellule beta. Attualmente, la terapia del diabete mellito di tipo 1 e di alcune forme di tipo 2 è basata sulla sostituzione della funzione delle cellule beta mediante iniezione sottocutanea di insulina. Nonostante i notevoli miglioramenti nella terapia insulinica legati alla disponibilità delle nuove preparazioni commerciali e l’adozione di regimi di trattamento intensivo in grado di migliorare il controllo glicemico, la somministrazione esogena di insulina, al momento, non è in grado di evitare le complicanze di lungo periodo del diabete. L’attesa di vita del paziente diabetico rimane ridotta rispetto a quella della popolazione generale. In linea di principio, quindi, la cura definitiva per il diabete di tipo 1 e per molti casi di diabete di tipo 2 risiede nella possibilità di trovare un sostituto della massa beta cellulare in grado di assolvere a due funzioni essenziali: valutare i livelli di glucosio nel sangue e secernere livelli appropriati di insulina nel letto vascolare. Un apparato tecnico meccanico (pancreas artificiale) in grado di svolgere questa funzione potrebbe offrire una soluzione soddisfacente, ma, al momento, questo approccio non ha ancora una prospettiva clinica a breve periodo. L’unica terapia disponibile in clinica in grado di ricostruire il patrimonio beta cellulare del paziente diabetico è il trapianto allogenico/autologo di cellule beta (terapia cellulare somatica con trapianto di pancreas, isole di Langherans o singole cellule beta). Nonostante i progressi degli ultimi anni, la terapia somatica allogenica rimane problematica da molti punti di vista (per esempio la necessità di una terapia immunosoppressiva e, nel caso del trapianto di isole, la necessità di disporre di molti donatori per un singolo ricevente e la durata limitata nel tempo del trapianto). Risulta quindi applicabile ad un gruppo molto selezionato di pazienti.
Il grandissimo potenziale terapeutico ha reso la ricerca sulle cellule staminali per la terapia del diabete un settore di grande interesse. La prima sede in cui si sta cercando una possibile cellula staminale in grado di differenziare in cellule beta è, ovviamente, il pancreas. Al momento, se esista una cellula pancreatica adulta progenitrice o staminale in grado di differenziare in beta cellula è motivo di discussione e sono state utilizzate strategie differenti per la sua eventuale identificazione e per il suo isolamento. Sulla base delle analisi dei modelli di rigenerazione pancreatica nei roditori, è ragionevole pensare che la cellula staminale pancreatica, se esiste, risiede a livello dei dotti del pancreas. Per questa ragione, diversi gruppi hanno utilizzato preparazioni pancreatiche arricchite per cellule duttali come materiale iniziale per generare nuove isole pancreatiche. Attualmente, sussistono significative controversie sui risultati ottenuti e, se si rispettano i criteri stringenti nella definizione, nessuna cellula staminale adulta in grado di dar vita ad una beta cellula nell’uomo è stata caratterizzata. Molti candidati sono stati identificati, isolati e parzialmente caratterizzati. Ma i protocolli di differenziazione finora proposti hanno permesso di ottenere cellule con capacità secretoria dell’insulina estremamente ridotta rispetto a quella di una cellula beta. Anche se è la più ovvia, il pancreas non è l’unica possibile sede per la ricerca di cellule staminali in grado di differenziare in cellule beta. Le cellule beta condividono l’origine endodermica con il fegato e l’intestino e la comune origine embrionale rende potenzialmente più semplice la cross differenziazione tra questi organi, come è facilmente osservabile in fenomeni di transdifferenziazione spontanea del pancreas in fegato in alcune condizioni patologiche. In modo simile per l’intestino, l’analisi nei topi con delezione di alcuni fattori di trascrizione mostra che le cellule originariamente destinate a diventare pancreas acquisiscono una caratterizzazione intestinale. Sulla base di questo background, molti gruppi hanno testato la possibilità di transdifferenziare cellule epatiche o intestinali in cellule beta. In molti casi, questo approccio associato a tecniche di ingegneria genetica ha permesso di ottenere cellule in grado di costruire strutture simili alle isole di Langerhans, con l’espressione dei marker di differenziazione pancreatica e la capacità di normalizzare la glicemia in vivo nel topo. Siamo, però, ancora lontani dall’applicazione sull’uomo.

La possibilità di ottenere cellule producenti insulina a partire da precursori mesodermici come il midollo osseo e cellule circolanti del sangue, appare particolarmente attraente, per la facilità di recupero del materiale e la possibilità di utilizzo di una sorgente autologa. In vitro, si è dimostrato in differenti modelli (topo, ratto e uomo) che cellule di derivazione dal midollo osseo, in particolare cellule staminali mesenchimali, sono in grado di differenziare in cellule producenti insulina ed in qualche caso di revertire il diabete in modelli animali. In modo similare, cellule staminali mesenchimali derivate da tessuto adiposo e sottopopolazioni di monociti derivati dal sangue circolante hanno mostrato capacità di espressione di insulina. In genere, i livelli di espressione insulinica riportati in questi modelli sono risultati bassi e difficilmente si potrà utilizzare questa sorgente per differenziare beta cellule. Molti studi hanno riportato la possibilità di differenziare cellule producenti insulina a partire da cellule adulte ottenute dal cervello, dalla cute, dalle ghiandole salivari e dalla milza. L’interpretazione dei dati che suggeriscono una così ampia plasticità rimane controversa. La dimostrazione dell’esistenza di cellule staminali multipotenti, o addirittura totipotenti, a livello del liquido amniotico, della placenta e delle gonadi adulte, ha spinto a valutare la possibilità di ottenere cellule insulino secernenti a partire da queste fonti. Anche in questo caso, i dati al momento disponibili sono limitati e l’effettiva potenzialità di queste fonti per la terapia del diabete mellito dovrà essere confermata nei prossimi anni.
I recenti, solidi, avanzamenti nel campo della differenziazione di cellule staminali embrionali umane in beta cellule propongono questo approccio come una delle alternative più promettenti per la futura terapia cellulare del diabete. Le cellule staminali embrionali, in confronto a tutte le altre potenziali risorse di cellule beta, possiedono alcuni vantaggi teorici: possono essere derivate dello stesso paziente, hanno un’illimitata capacità di espansione e, quando sono messe nel corretto contesto, sono in grado di dar vita a tutte le tipologie cellulari del corpo, comprese le cellule beta. Partendo da cellule staminali embrionali, la possibilità di ottenere strutture similari alle isole, con capacità di secernere insulina in modo regolato, in vitro ed in vivo, è stata dimostrata da diversi gruppi nel topo, nella scimmia e nell’uomo.

Tuttavia, la ricerca in questo campo è attraversata da molte controversie. In genere, le cellule generate sono poche, non mostrano un contenuto insulinico significativo ed una secrezione regolata in modo fisiologico. Più in generale, una limitazione cruciale per l’utilizzo delle cellule staminali embrionali nel paziente diabetico rimane il potenziale tumori-genico. Inoltre, la ricerca nel settore delle cellule staminali embrionali si è trovata, in questi ultimi anni, con non pochi problemi da affrontare, sia di ordine tecnico-scientifico, sia etico. Ma il futuro va guardato con un certo ottimismo. Infatti, nel 2006, un gruppo di ricercatori giapponesi ha dimostrato che, mediante una poli-transfezione cellulare, è possibile riprogrammare cellule già differenziate, conferendo a queste caratteristiche di staminali embrionali. Nel corso del 2008 è stato dimostrato che è possibile indurre questo processo anche in cellule umane, producendo “iPS” da cute. Per la comunità scientifica, questa scoperta assume una valenza estremamente elevata, sia in termini tecnico-scientifici, in quanto permette potenzialmente la coltura di linee cellulari con caratteristiche simili alla cellule embrionali da qualsiasi persona, sia in termini etici, in quanto rende possibile lo studio delle cellule staminali senza dover distruggere materiale embrionale e/o fetale. In conclusione, studi volti a ricostruire la massa beta cellulare a partire dalle cellule staminali o precursori, utilizzando come sorgente sia cellule di derivazione pancreatica, sia cellule di derivazione extrapancreatica, sono di assoluta rilevanza. Ciononostante, il campo risulta molto controverso e difficoltoso. Mancano ancora molte informazioni riguardo i meccanismi molecolari e i “pathways” di segnali che controllano l’espansione e la differenziazione delle cellule staminali in cellule beta producenti insulina. Molti risultati sono stati ottenuti da modelli animali e da linee cellulari e non è ancora chiaro se le cellule umane primarie possono essere manipolate nello stesso modo. Inoltre, la generazione di cellule insulino producenti non sempre è stata valutata con criteri rigorosi e la semplice espressione di insulina non è di per sé sufficiente a determinare una cellula come beta. Esiste, poi, la difficoltà di modelli in vivo nell’uomo che permettano di valutare la crescita e la proliferazione delle cellule beta ed il controllo della tumorigenicità. Infine, non è da sottovalutare il fatto che il diabete mellito, sia di tipo 1, sia di tipo 2, non è caratterizzato da un danno acuto a carico delle cellule beta (stile ischemia) e che, pur determinando la morte delle cellule, si esaurisce nel tempo. Sia la condizione di insulino resistenza, sia l’autoimmunità permangono invariate, se non modificate, in termini terapeutici ed un’eventuale terapia con “nuove cellule beta” è destinata a fallire in breve tempo, se non accompagnata dalla correzione della noxa patogena primaria. Nonostante tutte queste difficoltà, è presumibile che la terapia cellulare per il diabete mellito si arricchirà nei prossimi anni di nuove sorgenti di cellule producenti insulina, ottenute grazie agli studi nel campo delle cellule staminali.

Lorenzo Piemonti
Direttore del San Raffaele Diabetes Research Institute (HSR-DRI), Milano

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