The UnGoogleables è un quasi-movimento nato negli Usa che consacra the hide from search, l’assenza di identità, innanzitutto del proprio nome, in ciò che sempre trovi nella rete. La logica della presenza e dello status è capovolta, senti di esistere (meglio) se non sei rintracciabile sul web.
Circola una domanda che siamo destinati a sentirci porre anche solo conversando al cellulare, e che è entrata nelle prassi degli incontri sociali, delle conversazioni al bar, alla macchinetta del caffè, alle cene, ai momenti conviviali tra vecchi e nuovi conoscenti. Una domanda innocua, che serve più che altro a sostenere l’impegno nella conversazione. Una domanda, tuttavia, che porta con sé un’implicazione: costringe l’individuo a parlare di sé. Una domanda potente, poiché fa del self dei parlanti un esplicito oggetto conversazionale e, come tale, soggetto a definizioni, commenti, giudizi, conoscenze e riconoscimento, ma anche a controlli e trattamenti morali. “Sei su Facebook?”. La domanda individua due tipi di parlanti: quelli che sono e quelli che non-sono sul più famoso social network del pianeta. Distingue tra due forme di esistenza in un mondo in cui l’erosione del confine tra reale e virtuale è forse data per scontata. L’implicazione del self è evidente: di solito, la conversazione prosegue con giustificazioni, argomentazioni riguardo al senso del social network e con la presentazione di ragioni delle nuove identità che si caratterizzano per una certa presenza o assenza. Facebook deve la sua importanza al fatto di essere un oggetto di conversazione, non solo dentro, ma anche fuori la rete.
La gente ne parla, commenta, esprime opinioni. Si organizzano convegni, gli intellettuali scrivono pamphlet, piovono tesi di laurea e fioriscono progetti di ricerca. È lo stesso discorso, l’attività conversazionale, che riflessivamente contribuisce a riprodurre la cosa: in certa misura, Facebook esiste solo perché se ne parla. Tornando alla domanda, viene da chiedersi se comporti questo tipo di logica: “dimmi se sei su Facebook e ti dirò chi sei”. La domanda ripropone una logica ormai evidente nella comunicazione commerciale, che traspare nell’economia dei segni dei cartelloni pubblicitari, persino nella decorazione degli autobus, quando allo slogan, alla marca, al nome di un’impresa-azienda-produttore-distributore-venditore ecc. (ferramenta o istituzione pubblica che sia) viene fatto seguire l’indirizzo web dove potrai sapere “meglio” chi è e di che cosa si tratta “per davvero”. Si tratta di un ovvio strumento utile ad un’altrettanto ovvia logica di informazione. Ma oltre a riprodurre una sorta di condizione di esistenza – se non sei sul web non esisti – la logica è di un dispositivo che incorpora un incessante rimando a pratiche di vita quotidiana: vai in rete, nel luogo dove sta il sapere e il simulacro di identità che cerchi. Un luogo affollato di presenze e per il quale le condizioni e le abilità di accesso e, soprattutto, di uso, distinguono identità e status, non più nella classica forma del “digital divide”, ma ben oltre l’immagine differenziale apocalittici/integrati. La rete è il luogo del sapere e «Google è il ragno della rete. In essa svolge una metafunzione: sapere dov’è il sapere.
Dio non risponde mai; Google sempre, e immediatamente». Così Miller colloca Google tra I nuovi miti d’oggi, la rivisitazione del famoso catalogo di Barthes. Ma in tale contesto, il vero mito che sfugge è un altro: quello di un sé ungoogleable. E, naturalmente, unfacebookable. The UnGoogleables è un quasi-movimento nato negli Usa che consacra the hide from search, l’assenza di identità, innanzitutto del proprio nome, in ciò che sempre trovi nella rete. L’esistenza è concepita dentro una leggera forma di resistenza che fa dell’outsider una condizione di quasi privilegio, un essere che custodisce un bene prezioso. La logica della presenza e dello status è capovolta, senti di esistere (meglio) se non sei rintracciabile sul web. Tutela di intimità, ossessione del controllo, senso di autonomia, protezione della propria vita quotidiana, fastidio per l’inevitabile condizione di rin-tracciabilità (conto corrente, carta di credito, carte fedeltà, qualsiasi pass-card, cellulare, ecc.), disgusto per la logica dei reality e di programmi quali “Chi l’ha visto” sono i principali elementi costitutivi del nuovo movimento. Forse destinato a fallire, e dal quale molti sono ormai esclusi per definizione. E per questo un nuovo mito del XXI secolo.
Gianmarco Navarini
Professore associato di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi
Università di Milano Bicocca