Volere un figlio

È arrivato il momento di prendere atto che anche nella coppia classica non esiste un modello unico di genitorialità che può essere elevato a misura di tutte le genitorialità
specifiche. Che non c’è un solo stile, non c’è un protocollo corretto contro un altro che è sbagliato. La famiglia classica, al di là della retorica, non ha una marcia in più.

Non facciamone un assoluto
Coppia omosessuale? Sì certo! E se volessero anche un figlio? Di fronte a questa domanda sono in molti a storcere il naso, anche chi, magari, è assolutamente favorevole all’omosessualità ed al suo pieno riconoscimento. Ma la famiglia no, la famiglia è “un’altra cosa”. Mi piace pensare a questo tema come di natura etica. Rifletterò quindi sulla problematica sentendomi lontana da posizioni definitive e alla ricerca di valori etici senza la pretesa di avere la verità assoluta, valida sempre e per tutti. Non intendo esprimere dogmi o fondamentalismi, ma posizioni che oggi sento di assumere con convinzione e che non considero definitive. Sono convinta, infatti, che su certe questioni mai esauriremo il compito di riflettere per ricercare risposte nuove e sempre più veramente autentiche. Restando quindi sinceramente nella dimensione della ricerca e del dubbio, vorrei che ci ponessimo delle domande. Perché non andiamo oltre il semplicistico sì o no alla genitorialità nella coppia omosessuale? Perché non canalizziamo in modo più colto e costruttivo lo sforzo di stabilire se è un bene o un male? Perché non tentiamo di allargare i confini ristretti e ormai vetusti delle tesi contrapposte per una ricerca di senso più vero dell’essere genitori? È riduttivo basare la qualità dell’essere genitore sul sesso o sull’identità sessuale. Centomila ragazzi oggi in Italia sono figli di genitori gay. Tanti i figli nel passato che sono cresciuti in ambiti solamente femminili. Pensiamo alle generazioni precedenti, del secondo dopo-guerra: morto il padre, l’unico riferimento era la madre. Così mio padre è divenuto grande, uomo con un’identità virile ben marcata. Oppure, pensiamo ai contesti educativi esclusivamente maschili di un passato non troppo lontano, come gli orfanotrofi o i collegi. Kant ha ben sostenuto che ogni nostro simile è sempre un fine e mai può essere un mezzo. Eppure, purtroppo, moltissimi figli di separati, anche in presenza di affido condiviso, oggi vivono solo col genitore collocatario. Non solo. Spesso vengono manipolati al punto da rifiutare l’altro genitore, quello demonizzato per troppo rancore e conflitto irrisolto all’interno dell’ex-coppia.

Altri imparano presto a rapportarsi con le figure dei nuovi compagni dei genitori. Molti gay hanno avuto figli con lesbiche e sono nate le “famiglie arcobaleno”, che hanno generato esperienze positive e propulsive del rinnovamento della società. Hanno saputo creare intorno a sé una famiglia allargata dove circola un affetto perfino più grande di quello possibile nei confini di una famiglia ristretta. Facciamo, dunque, qualche passo indietro per rivolgere uno sguardo d’insieme alla famiglia di oggi: un arcipelago di esperienze sempre più varie e sperimentali, in cui, però, unico punto fermo e fondamentale è proprio l’“essere genitori”. Eppure, in ognuno di noi, resta presente, ma subdolo, un ideale “fanciullesco” di perfezione, di modello unico. Quella famiglia consolatoria, del sogno, a cui non a caso fa riferimento lo stereotipo pubblicitario. La tanto citata famiglia del Mulino Bianco, tra biscotti e brioches, che tanto ci rassicura. Solo quando siamo capaci di aprire gli occhi e svegliarci dal sogno possiamo riconoscere che la vita è tutta fondata sulla diversità. La parola di-verso vuol dire “in un verso che non è quello abituale”. Deriva da di-vertere, non seguire la strada precostituita. Ma troppo spesso diventa sinonimo di inferiorità o di superiorità, di contrapposizione, di isolamento. Di conflitto. Raramente di opportunità. Superare questo livello è la condizione per definirci adulti come persone. Come società. In fondo, il prototipo di famiglia che generalmente ci accompagna non è mai esistito. Neanche nel passato. Basta già pensare alla strana famiglia di Nazareth, con un Giuseppe che non aveva generato, eppure fa il padre ed è poi fatto santo. Nel nostro vissuto, poi, i nostri genitori non sono stati così perfetti, e le loro diversità spesso non sono state né composte, né risolte, né armonizzate, né elaborate. Nel nostro presente, misurarci con un modello ideale ci fa toccare con mano quanto la nostra situazione reale, concreta, sia distante. Questo misurarci con un modello, perfetto perché astratto ed irreale, crea grandi e devastanti sensi di colpa, inadeguatezza, squalifica.

È arrivato il momento di prendere atto che anche nella coppia classica non esiste un modello unico di genitorialità che può essere elevato a misura di tutte le genitorialità specifiche. Che non c’è un solo stile, non c’è un protocollo corretto contro un altro che è sbagliato. La famiglia classica, al di là della retorica, non ha una marcia in più! Questa evidenza può diventare un sollievo, ma costituisce anche una responsabilità: grande ed elusa in primis dalle coppie tradizionali! La famiglia naturale non è depositaria della buona genitorialità. Questo mi ha sollecitato a pubblicare il testo “Educare con senso e senza dissenso”. Un percorso intrecciato tra scuola e famiglia, in cui nessuna delle due parti è del tutto responsabile dell’educazione del minore, ma lo sono entrambe, a patto che abbiano chiari i propri ruoli e non si smetta mai di “cercare” nuove forme di relazione. In ogni coppia c’è la polarità maschile e femminile, anche all’interno di quella omosessuale. Non è solo un problema di sesso, semmai di identità. Comunque, quante volte all’interno della famiglia canonica la madre concilia in sé una buona sintesi di maschile e femminile? Quante volte esprime una modalità più maschile in relazione ad un partner più femminile?
Da generatori a genitori
Ci sono passaggi non secondari, troppo spesso dati malauguratamente per scontati: prima di tutti quello di non restare nella condizione automatica di generatori e formarsi come genitori. Ciò significa anche domandarsi come dare un senso alla diversità perché abbia un Valore, perché costituisca un Valore. Come passare da un livello di pura naturalità all’essere maestri di vita. Di una vita che non insegue il passare dei giorni, ma che attua ed esprime di giorno in giorno i valori del proprio vivere. Questo richiede una trasformazione: dall’essere mamma o papà al divenire Madri e Padri con la lettera maiuscola, che aprono alla realizzazione piena, completa, forte di sé! Quindi l’impegno più importante di chi genera è quello di trascendere la naturalità e diventare educatori nel rispetto dell’originalità del figlio. Nella dimensione dell’amore e non della semplice affettività. Ciò richiede capacità di gestire le relazioni anche quando complesse, perché il figlio si svela diverso dall’angioletto che tanto abbiamo sognato. Richiede che non andiamo in crisi quando non sappiamo se dare una sculacciata o una caramella, se dire sì o no. Drammi di chi naviga a vista e si interroga di volta in volta, incapace di distinguere ciò che è opportuno e ciò che potrebbe risultare inibente, castrante, limitativo della libertà del bambino. Bisogna ricercare chiare direttrici del proprio ruolo e questo richiede un percorso di auto-formazione che, utile sempre, a volte inizia sullo stimolo della fatica dell’essere, più che del fare i genitori. Che si ricerca a partire dalla scoperta che non si sa che fare con i figli. L’esito di questa propria educazione per diventare educatori porterà con sé la fermezza autorevole ed affettuosa di un adulto che ha scelto una linea e sa come portarla avanti. Che sperimenterà la fecondità dei no e dei sì detti a partire da una consapevolezza di fondo. Da una competenza relazionale. Da un’intelligenza emotiva sviluppata. Da una capacità di gestire e risolvere i conflitti. Questo sto sperimentando in un lavoro di nicchia con genitori attraverso un coaching relazionale a livello di singola coppia o di gruppo di formazione. Autoformazione affascinante, impegnativa, che vale la vita ma che va ben oltre l’identità sessuale.
E le discriminazioni?
Può accadere che, andando a scuola, ai bambini venga chiesto perché. Spesso. Per tutto Perché viene a prenderti la mamma o la nonna e non il papà, perché il tuo papà ha la moto, ecc… Chiedono per capire, non per esprimere pregiudizi. Il problema è saper offrire le risposte. Per questo occorre scegliere il profilo del proprio vivere. Quello alto prevede che si sappia accogliere, promuovere, riconoscere chi e ciò che è espressione di capacità di amare, rispettare, comprendere. Che vada al di là dei luoghi comuni, dell’intolleranza, della paura del diverso. Non creerà scandalo, quindi, che si sia figli di coppie omosessuali.

Maria Martello
Docente presso l’Università Cà Foscari di Venezia di Psicologia dei Rapporti Interpersonali

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