Ti amerò per quello che sei

La genitorialità adottiva nasce quasi sempre da un’esperienza di “vuoto”, di privazione della gravidanza. Tale assenza deve essere riconosciuta ed elaborata, in modo che possa essere colta la dimensione di “doppia mancanza” insita nell’adozione: da una parte una coppia a cui manca un figlio, dall’altra un bambino senza genitori. Se l’adulto riesce ad integrare questi due aspetti, riuscirà a compiere anche il passo successivo

Il concetto di genitorialità comprende essenzialmente due tipi di comportamenti: quello protettivo e quello accuditivo. Tramite il comportamento di tipo accuditivo il genitore si “occupa” del bambino, nutrendolo, curandolo e offrendogli stimoli che ne permettano una crescita sana e armoniosa. Un corretto ruolo genitoriale richiede, quindi, un’adeguata percezione dei bisogni del bambino e un adattamento alle sue esigenze, lasciandosi “dominare e controllare” dal proprio figlio. Questo significa che l’adulto deve rispondere alla condizione di “essere indifeso” del figlio senza aspettarsi alcuna “contropartita”, altrimenti gli impegni connessi alla sua cura e al suo allevamento diventeranno potenziali elementi scatenanti la violenza. Il comportamento protettivo ha una doppia funzione: protezione rispetto ai vissuti stessi del bambino, accogliendo e prendendo su di sé paure e ansie cui il piccolo non è ancora in grado di provvedere a causa della sua condizione infantile, e protezione rispetto agli stimoli del mondo esterno, ponendosi come una “barriera” per mediare le istanze dell’ambiente sociale circostante, svolgendo una funzione di “Io ausiliario” per il figlio, ancora troppo immaturo per esplorare e affrontare autonomamente il mondo esterno. A tali comportamenti va aggiunto un processo di adattamento delle proprie fantasie sul figlio (il bambino immaginario che è nella mente di ogni genitore) a misura del bambino reale che è nato. La genitorialità adottiva si troverebbe ad affrontare compiti più ardui rispetto a quella biologica in quanto i membri della famiglia adottiva sarebbero privi sia dell’esperienza narcisistica e fondante del rapporto genitore-figlio, in cui è possibile rispecchiarsi nell’altro trovandovi parti di sé, sia dell’esperienza del “tenere dentro/essere tenuto dentro” fisicamente. A ciò si deve aggiungere che, di frequente, la genitorialità adottiva nasce, da un’esperienza di “vuoto”, di privazione della gravidanza, e tale assenza deve essere riconosciuta ed elaborata, in modo che possa essere colta la dimensione di “doppia mancanza” insita nell’adozione: da una parte una coppia a cui manca un figlio, dall’altra un bambino senza genitori. Se l’adulto riesce a riunire ed integrare questi due aspetti, riuscirà a compiere anche il passo successivo, cioè cogliere la dimensione di “doppia nascita”: due esseri diventano genitori e un essere diventa persona attraverso la filiazione. In questo modo è possibile leggere l’evento genitorialità su un piano simbolico, in cui il genitoreadottivo è equiparato a quello  naturale, in quanto entrambi donatori di vita, di affetti e di pensiero. Questa prospettiva implica una “visione trasformativa” della genitorialità, fondata non più sulla trasmissione biologica ed ereditaria, ma “su un legame affettivo che si costruisce, cementandosi, giorno per giorno, nel percorso adottivo”. La peculiarità della genitorialità adottiva si situerebbe, quindi, nell’accettazione di un bambino nato da altri come figlio proprio, senza per questo cadere nella tentazione di cancellare la sua storia, bensì riconoscendosi come appartenenti alla comune storia familiare pur nella consapevolezza della diversità delle origini. La genitorialità adottiva richiederebbe, inoltre, una capacità genitoriale riparativa nei confronti dei vissuti dolorosi e penosi propri di un bambino abbandonato, a cui si aggiunge un’analoga capacità di protezione dai vissuti dolorosi, legati alla sterilità e al fallimento, propri dell’adulto. Questo significa che il genitore deve essere in grado di accogliere, contenere in sé ed elaborare gli aspetti dolorosi e pericolosi che il bambino porta con sé e che sono legati alla sua storia passata, restituendogli un prodotto meno angoscioso e pericoloso, in modo da permettere al piccolo di riprendere il corso dello sviluppo psico-affettivo, alterato dal trauma dell’abbandono. Se il bambino sente che c’è una parte di sé che è “indicibile” agli adulti di riferimento, perché non contenibile nel pensiero e nelle aspettative dei genitori, tenderà a mettere quella parte di sé nel proprio mondo interno e ad offrire loro solo risposte conformi alle loro aspettative, attuando un adattamento parziale e superficiale, mentre il suo passato e il suo dolore continueranno ad esistere in un’area nascosta e segreta, in uno spazio non condiviso, ponendosi come un ostacolo nella creazione di un rapporto di fiducia con i nuovi genitori. È essenziale, quindi, che i genitori sappiano accogliere non solo le parti del bambino che desiderano una nuova vita, ma anche quelle legate ad un eventuale passato traumatico per permettere la loro espressione e per dar loro un significato, aiutando il figlio nell’elaborazione e nella ricostruzione della propria storia. È, infatti, proprio la possibilità di accogliere e accettare anche gli aspetti negativi del bambino, mantenendo un atteggiamento di apertura rispetto ai sentimenti di perdita e di dolore del piccolo legati alle precedenti figure di attaccamento, ciò che permette al genitore di svolgere la basilare funzione di sostegno al figlio nell’elaborazione e ricostruzione della propria storia, accompagnando e sostenendo l’esperienza di separazione vissuta dal piccolo. La possibilità di stabilire nuovi attaccamenti deriva, infatti, dalla possibilità di pensare e mentalizzare l’esperienza di separazione con l’aiuto di adulti significativi per il bambino, evitando così che tale esperienza si trasformi in traumi. Se il bambino idealizza l’oggetto d’amore perduto avrà delle difficoltà ad investire i suoi affetti nel genitore sostitutivo, se idealizza quest’ultimo, invece, non riuscirà a sperimentare i vissuti di perdita legati al genitore abbandonante e non riuscirà, quindi, a staccarsene definitivamente. La capacità di integrare le proprie fantasie sul bambino immaginario con quello reale è ancora più necessaria nell’evento adottivo, in quanto l’adozione rischia di fallire là dove i genitori adottivi non sono capaci di accettare incondizionatamente, con il cuore e con la mente, il figlio per ciò che egli riesce ad essere e a dare. Il rischio è che l’adulto non riesca ad accettare l’unicità del bambino e le sue caratteristiche, in quanto vuol trovare in lui il protagonista di una relazione immaginaria in cui il figlio si comporta secondo i suoi desideri e le sue fantasie. L ‘immagine ideale di figlio spesso non è consapevole: il genitore fatica a capire le richieste e i comportamenti del bambino perciò gli richiede, per poter essere riconosciuto come figlio, di essere diverso da ciò che è. Tale richiesta avviene a livello implicito e il piccolo, per paura di subire un nuovo abbandono, vi aderisce, negando se stesso e rinunciando alla propria identità. È giusto e normale avere delle fantasie sul bambino, in quanto prefigurarsi l’immagine mentale del piccolo è un modo per pensarlo e per prepararsi ad accoglierlo, ma il genitore deve comunque mantenere una posizione critica rispetto a tali aspettative. È, quindi, la rigidità delle fantasie e delle aspettative il reale pericolo della relazione genitori-figli e non la presenza di un’immagine ideale, che è un processo naturale nello sviluppo di una relazione.

Viviana Rossetti
Istituto La Casa

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