Il bambino adottato è un soggetto complesso, portatore di peculiari problematiche educative,per le quali non è pensabile una soluzione efficace che passi unicamente attraverso l’operato della famiglia o della scuola. È necessario un progetto comune, una collaborazione e un dialogo tra genitori e insegnanti, perché il bambino possa vivere in modo positivo l’esperienza scolastica e, più in generale, possa davvero sentirsi accolto, amato, in una parola “adottato” dall’intera comunità
L’esperienza scolastica del bambino adottato rappresenta un “viaggio” non soltanto per il bambino stesso, ma anche per coloro che gli sono accanto, prima di tutto i genitori. L’inserimento educativo e scolastico del bambino segna una tappa fondamentale nella storia familiare: esso è, per le mamme e i papà, un momento di distacco e di messa alla prova delle proprie capacità genitoriali. Per i genitori adottivi, questo evento assume un’importanza ancora più profonda: nel sentire comune, infatti, l’equazione riuscita scolastica = riuscita dell’adozione è molto radicata, tanto che una buona pagella diventa non solo il simbolo delle capacità e dell’impegno personale del bambino, ma anche riconoscimento delle attenzioni, dell’amore e delle cure familiari. Insieme al bambino viene promossa tutta la famiglia; allo stesso modo, quando il bambino viene bocciato o presenta delle difficoltà, il fallimento non è soltanto suo, ma di tutta la famiglia. Molti genitori vivono incomprensioni nell’impatto del figlio con la scuola e sperimentano un senso di impotenza e di inadeguatezza nel dover giustificare all’insegnante lo scarso rendimento scolastico, l’incapacità a concentrarsi, il comportamento reattivo e apparentemente incomprensibile del figlio. Tali atteggiamenti del bambino, spesso, sono espressione della sua paura di “non essere all’altezza”: egli deve far fronte, insieme a quelle dei suoi insegnanti, anche alle aspettative dei suoi nuovi genitori, aspettative molto elevate, spesso del tutto inadeguate alle sue reali possibilità. Quando le aspettative sono alte, e lo si rileva in special modo in genitori adottivi con alto titolo di studio, il mancato successo scolastico di un figlio adottivo viene caricato di un peso enorme. E’ come un segnale di “non appartenenza”: questo figlio non ci assomiglia, e le ansie conseguentemente scaricate su di lui diventano impossibili da gestire. E più sono alte le aspettative, più la pressione aumenta, più l’ansia rende un bambino incapace nelle attività scolastiche.
Scrive Verrier: “E quando la primaria attività di un bambino diviene proteggersi da un ulteriore abbandono, questo gli lascia poca energia per concentrarsi su cose meno vitali come il lavoro scolastico. Per farsi un’idea di cosa sia l’ipervigilanza, si può osservare un uccello che becca in giardino. Notate come l’uccello stia costantemente volgendo la sua testa per guardare tutto intorno se vi sono segnali di pericolo. Così è per l’adottato. Sebbene egli possa non essere cosciente di ciò che sta facendo, egli è costantemente all’erta per cogliere segnali di possibile rifiuto, di un potenziale abbandono”.
Le aspettative devono perciò essere ragionevoli e flessibili, in modo da abbassare il livello di ansietà del bambino in modo tale da permettergli di condurre a buon termine i compiti di scuola. L’esperienza scolastica del bambino adottato rappresenta un “viaggio” anche per il docente. Un viaggio che non è soltanto professionale, ma anche e soprattutto personale: accogliere nella scuola un bambino straniero adottato significa essere pronti ad affrontare insieme ai genitori adottivi i bisogni che egli porta dentro di sé, mettendo in gioco non soltanto la propria professionalità, ma anche la propria sensibilità personale. Potremmo riassumere le attenzioni che il docente dovrebbe avere nei confronti del bambino adottato in due parole: accoglienza e dialogo.
L’insegnante deve, prima di tutto, far sì che il bambino adottato possa vivere la scuola come un’esperienza fondamentale di accoglienza e di ampia disponibilità a valorizzare la ricchezza della diversità di cui egli è portatore .
La diversità del bambino assume, fondamentalmente, tre sfaccettature: diversità di famiglia, somatica e/o culturale, linguistica.
In primo luogo, il minore in stato di adozione porta con sé una diversità di famiglia. Ci sono molti modi di essere famiglia: i bambini possono vivere con i genitori, con uno solo di essi, con i nonni o gli zii, con la famiglia affidataria o con la famiglia adottiva. Oggi, quindi, la famiglia trova la sua legittimazione nel legame affettivo, ma, se analizziamo i libri di testo, o facciamo attenzione ai messaggi proposti dai mass media, vediamo come essa, il più delle volte, sia descritta secondo schemi ormai superati, che enfatizzano il legame di sangue. La scuola diventa uno dei luoghi in cui questi stereotipi e modelli possono passare, rischiando di emarginare coloro che se ne discostano.
Un secondo tipo di diversità è quella somatica e/o culturale: quando il bambino adottato arriva da un altro Paese è probabile che presenti tratti somatici e tradizioni culturali differenti dai suoi compagni di classe. Integrare le caratteristiche della sua cultura d’origine con le modalità assai diverse della cultura familiare e sociale d’accoglienza non costituisce un percorso facile. E’ evidente che più tardi il bambino è arrivato in Italia, più si è protratto il tempo nel quale egli ha vissuto nel proprio gruppo sociale d’origine, sperimentandone e interiorizzandone modelli relazionali e di cura. Questi aspetti costituiscono i pilastri della sua identità personale. L’inserimento nella realtà di accoglienza sarà sufficientemente buono se l’insegnante non cercherà di “plasmare” il bambino cancellando il suo bagaglio personale; egli dovrà permettere al minore di elaborare i passaggi della propria storia adottiva, accogliendo gradualmente i cambiamenti che portano dalla realtà d’origine a quella d’accoglienza. Solo così potrà costruire modalità relazionali nuove, creative, evitando lo scontro, il conflitto, la sottomissione alla cultura d’accoglienza.
Infine, nel caso in cui il bambino sia stato adottato da grande, l’insegnante si trova a dover fare i conti con la differenza linguistica. L’apprendimento della nuova lingua rappresenta una sfida specifica che assume una portata e un peso diversi a seconda dell’età.
Per i bambini che frequentano la scuola elementare il ritrovarsi privi di parole per esprimere bisogni, emozioni, affermazioni e saperi si traduce spesso in forme di esclusione/autoesclusione. A scuola non basta conoscere la lingua concreta, contestualizzata, del “qui e ora” che permette la comunicazione quotidiana con i pari e con gli adulti; è necessario apprendere anche il linguaggio astratto, le parole delle diverse discipline e le strutture linguistiche che servono ad esprimere concetti, nessi logici, idee. Se la lingua per comunicare si apprende piuttosto velocemente, il percorso di appropriazione dell’italiano della scuola e dello studio richiede tempi molto più lunghi, sforzi individuali notevoli e attenzioni linguistiche mirate. Non sempre gli insegnanti sono a conoscenza dei diversi tempi richiesti per l’apprendimento della lingua. Così, quando il bambino comincia a parlare in modo abbastanza fluente la lingua concreta, essi danno per scontato anche il linguaggio scolastico astratto, trattando il bambino come un alunno italofono a tutti gli effetti e sviluppando nei suoi confronti aspettative che egli non potrà soddisfare.
Come dovrebbe porsi l’insegnante nei confronti di queste molteplici diversità?
Prima di tutto dovrebbe riconoscere la diversità come ricchezza, non come ostacolo, per poter poi sviluppare nei confronti di essa un atteggiamento di accoglienza.
La seconda parola chiave che dovrebbe guidare l’operato degli insegnanti che hanno in classe un bambino adottato è dialogo. La collaborazione tra scuola e famiglia, infatti, può rivelarsi estremamente arricchente per entrambi gli attori coinvolti. Da una parte i genitori sono i depositari della storia del bambino e possono aiutare gli insegnanti a comprendere meglio i suoi precisi bisogni e a conoscere ed individuare meglio quali sono le sue capacità, e i suoi interessi, su cui poter far leva per coinvolgerlo meglio durante il percorso didattico. Dall’altra parte il bambino trascorre gran parte della giornata a scuola e, spesso, manifesta nel suo comportamento, nelle sue relazioni con gli altri, insegnanti e compagni, e anche nei suoi stessi elaborati, sentimenti, desideri, vissuti e timori. L’insegnante può, quindi, aiutare la famiglia adottiva a sviluppare una capacità di ascolto dei reali problemi del bambino e a leggere correttamente eventuali suoi comportamenti disfunzionali.
L’ascolto di questi messaggi può così permettere all’insegnante che ha stabilito un buon rapporto con i genitori adottivi di parlare con loro del bambino, non solo e non tanto per dare indicazioni, quanto piuttosto per condividere con loro conoscenze e possibilità di aiuto al bambino stesso.
Il minore adottato ha bisogno di essere sostenuto nel costruire la propria personalità, va stimolato nelle sue doti personali e incoraggiato a credere di poter raggiungere con la volontà gli obiettivi del suo progetto di vita. E’ importante che l’azione della scuola non sia disarticolata dall’azione dei genitori adottivi: una valida collaborazione aiuta il bambino ad essere se stesso, lo rincuora, gli assegna responsabilità commisurate alle sue forze, lo guida a far prevalere i pensieri positivi, a coltivare ideali e a realizzare aspirazioni realistiche.
Chiara Rigetti
Operatrice Associazione No Profit
Istituto La Casa