Soli. E quindi vulnerabili

La volontà di resistenza dei minori coinvolti può essere talmente sottomessa dagli adulti da prevenire qualsiasi possibilità di allontanamento. Un sistema fondato su una forma evidente di violenza psicologica che fa apparire il rapporto di lavoro come la manifestazione di una libera scelta di convenienza tra le parti

Da molti anni ormai in Italia arrivano minori stranieri, non sempre al seguito dei loro genitori o parenti di prossimità. Sono minori che vengono ormai definiti “non accompagnati”, o meglio privi di genitori nel contesto di emigrazione. Si calcola che negli ultimi anni in Italia questi minori ammontino a circa 12/15.000 unità (secondo dati del Comitato dei minori stranieri presso il Ministero del Welfare). Si tratta, comunque, soltanto dei minori che vengono intercettati, in modi diversi, dalla Polizia e dai servizi sociali territoriali. E’ molto probabile che siano molti di più, anche se sono difficili stime al riguardo.

Questa condizione, caratterizzata dalla mancanza di protezione e di cura da parte di un adulto, può spingere, di fatto, una parte di questi minori ad intraprendere involontariamente percorsi rischiosi che possono condurli verso situazioni di marginalità sociale. La condizione di minore straniero in Italia, solo e pertanto senza adulti di riferimento, può determinare specificamente uno stato continuo di vulnerabilità: sia per il fatto, appunto, che è solo e quindi costretto a fare scelte in autonomia, senza confronti con persone con esperienze più mature; sia per le forme di disorientamento culturale che possono manifestarsi nel suo processo di insediamento; sia per le modalità di sussistenza a cui deve necessariamente sottostare per far fronte alle esigenze di vita quotidiana.

Questi aspetti, che coinvolgono un numero imprecisato di minori stranieri (in particolare coloro che sono privi degli apporti affettivo-esistenziali degli adulti di prossimità), possono tramutarsi – per lo stato di necessità in cui versano –   in forme di grave sfruttamento; forme che possono finanche configurarsi come para-schiavistiche. Nel senso che tendono anche a caratterizzarsi mediante rapporti con gli adulti in maniera fortemente  asimmetrica;  non soltanto per la differenza di età ma anche – e soprattutto – per le modalità coercitive e assoggettanti che gli uni (gli adulti) producono sugli altri (i minori, sia maschi che femmine) in maniera continuativa. E possono configurarsi in un modo o nell’altro in relazione al genere: se donne sovente vengono invischiate nei circuiti prostituzionali, se maschi in circuiti lavorativi di diversa natura.

In entrambi i casi la volontà di resistenza dei minori coinvolti può essere talmente sottomessa dagli adulti da prevenire qualsiasi conflitto o allontanamento e far apparire, paradossalmente, il rapporto medesimo come manifestazione di una libera scelta di convenienza tra le parti. Queste situazioni, pur tuttavia, si alimentano in ambiti e spazi sociali di particolare marginalità, in quanto in Italia queste pratiche di sfruttamento minorile sono rigidamente sanzionate. Infatti, sono messe in atto da gruppi di persone particolarmente dediti all’illegalità (imprenditori senza scrupoli, etc.) o da gruppi delinquenziali che praticano traffici illegali tra i più diversificati, incuranti, molto spesso, della possibilità di essere intercettati dalla Polizia.

Per i membri di queste organizzazioni criminali si tratta di un lavoro e pertanto la recidiva (ossia la perpetuazione del reato anche dopo un eventuale arresto) sovente caratterizza lunghi percorsi della vita di queste persone, a prescindere dell’origine italiana o straniera. Ciò vuol dire anche che acquistano una sorta di specializzazione mirata allo sfruttamento minorile e quindi sempre più sofisticata e soggetta a forti mimetizzazioni al fine di sfuggire alle intercettazioni delle Forze dell’ordine. D’altro canto, questi fenomeni di grave sfruttamento minorile, non essendo legittimati legalmente dalle normative correnti, come accade purtroppo in altri paesi dove manca quasi del tutto un quadro legislativo di protezione sociale dei minori con i relativi apparati repressivi,  si manifestano negli interstizi marginali della società e in maniera del tutto sommersa.

La collocazione dei minori in un abito o in un altro non è casuale. Infatti, l’età gioca un ruolo molto importante: più si avvicina ai quattordici (o al di sotto di essa) e maggiori sono i pericoli che i minori incorrono, al contrario, più l’età si avvicina ai 18 e meno appaiono i pericoli. Il motivo è piuttosto ovvio. Più bassa è l’età dei ragazzi e maggiore è l’influenza vessatoria che ricevono allo scopo di innescare meccanismi di invischiamento a livello psicologico e a livello di contenimento fisico. I ragazzi in età superiore – soprattutto se maschi –  sembrerebbero meno influenzabili perché più maturi e pertanto anche meno contenibili  dal punto di vista fisico nel caso di una possibile ribellione o interruzione del rapporto di sfruttamento.

Ciò nonostante la pressione sociale negativa che investe queste pratiche di violenza sottomissoria e di sfruttamento radicale spinge il fenomeno ad occultarsi e a mimetizzarsi all’interno di pratiche sociali criticabili ma in qualche maniera quasi tollerate, come ad esempio: le occupazioni al nero; oppure l’accattonaggio o la questua o la prostituzione di strada o “al chiuso” (facendo passare le minorenni come adulte, nascondendo così l’età reale). Non secondarie sono le pratiche costrittive che gruppi di minori stranieri sono spinti a fare – o condizionati a fare in modo apparentemente condiviso da adulti  astuti e cinici –  in ambiti correlabili alla piccola delinquenza organizzata nella così detta sfera delle “economie illegali di quartiere”.

Economie caratterizzate da furti e rapine su commissione, dal piccolo spaccio di sostanze psicotrope in strada o da viaggi in qualità di corrieri della droga o di contratti di armi tra un paese all’altro. Altrettanto significative, dal punto di vista della pericolosità, sono le pratiche di sfruttamento della prostituzione, laddove gruppi di minori maschi effettuano “servizi di strada” alle coetanee femmine: le accompagnano nei luoghi di esercizio della prostituzione, le controllano a distanza, portano loro generi di conforto (caffè, abiti pesanti, eccetera), le conducono al ristorante dopo il lavoro e le riaccompagnano a casa dai boss della scuderia. Gli adulti tendono ad usare significativamente questi minori poiché da un punto di vista normativo sottostanno ad un regime di “non perseguibilità” o  comunque, nei casi più gravi, possono fruire delle attenuanti che ne limitano le sanzioni penali.  I minori coinvolti in queste pratiche fanno da schermo agli adulti inseriti nelle organizzazioni criminali e al contempo si formano, in attesa di entrare in modo organico nell’organizzazione.

In Italia esistono strumenti di contrasto a questi fenomeni e strumenti di protezione sociale dei minori invischiati in pratiche di sfruttamento. Da una parte esistono le indicazioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro (cfr. le diverse Convenzioni internazionali); dall’altro le norme nazionali e, soprattutto, per gli stranieri, quelle previste dal T.U. sull’immigrazione, ad esempio l’art. 18 (mirato proprio alla protezione di vittime di grave sfruttamento e in particolare di quello sessuale) e la legge 228/03 (sulle forme di sottomissione paraschiavistiche) che estende le fattispecie di reato, allorquando sussistono forme abusive e di violenza su persone in condizioni di vulnerabilità (che spesso assumono una configurazione multipla). Norme e strumenti che comunque andrebbero rafforzati ed implementati mediante la costituzione di strutture intermedie di raccordo tra quanto dispone la normativa generale e gli effetti del fenomeno sulle amministrazioni locali, molto spesso lasciate, dalle autorità centrali, senza “linee guida” e con scarse risorse economiche.

 

Francesco Carchedi  Ricercatore presso il Parsec
docente presso l’Università degli studi di Roma «La Sapienza»

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