Quali strade intraprendere per un’economia della solidarietà e della vita?

Lo abbiamo chiesto a don Pierluigi Di Piazza, a cui è stata conferita la laurea ad honorem specialistica in Scienze economiche dell’Università di Udine in quanto ideatore, promotore, instancabile animatore del Centro di Accoglienza “E. Balducci” di Zugliano (Pozzuolo del Friuli).

L’economia che si basa sullo sfruttamento delle donne e dei minori produce violenza e porta allo spargimento di sangue. Nel febbraio 2004 l’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha dichiarato che sono più di 211 milioni i bambini che lavorano nel mondo e di questi 186 milioni lo fanno in condizioni dannose per la salute; di questi 73 milioni sono al di sotto dei 10 anni. Vengono impiegati nelle miniere, nelle fornaci, nelle piantagioni, nei lavori domestici, nelle fabbriche, tanti venduti come schiavi ed avviati alla prostituzione. In America Latina, ad Haiti, circa 300.000 minori lavorano come domestici in condizioni di semi-schiavitù, cibandosi di rifiuti, dormendo per terra ed essendo spesso oggetto di abusi sessuali. I bambini che lavorano provengono quasi esclusivamente da famiglie povere, che affidano i figli a conoscenti che promettono di occuparsi di loro in cambio dei lavori domestici.

Il Paese che detiene il triste primato del più alto numero di bambini lavoratori è l’India, dove ci sono almeno 5 milioni di bambini che sono obbligati a lavorare per pagare i debiti contratti dai genitori o in cambio di un pagamento anticipato fornito alle famiglie. In queste condizioni i bambini sono doppiamente schiavi: dei padroni che sfruttano il loro lavoro e dei genitori che sfruttano i loro soldi.

Secondo i dati dell’UNICEF, inoltre, ogni anno 1 milione e 200 mila bambini vengono venduti come schiavi. Il traffico di vite umane è una realtà sconcertante presente in tutti i continenti e in molte nazioni, ma gran parte di questo traffico ha origine nei Paesi dell’Africa Occidentale, spesso impoveriti dalla guerra civile.

La tratta dei minori in genere ha inizio con una sorta di contratto economico stipulato dai genitori del bambino che, non riuscendo a sfamare, vestire e curare i propri figli cercano qualcuno che se ne faccia carico. Nelle zone più povere i bambini vengono venduti e finiscono a lavorare nelle piantagioni.

Anche se a livello legislativo nessun paese del mondo consente la compravendita di bambini, questa piaga continuerà ad affliggere le generazioni future, finché esisterà la povertà, causa principale della schiavitù dei bambini. A questa negli ultimi anni si è aggiunta la malattia dell’AIDS, che produce milioni di orfani in balia del mercato.

Nell’Africa Subsahariana, la zona più colpita da questa malattia, ci sono oltre 11 milioni di orfani dell’AIDS. La sfida per i paesi decimati da questa piaga è tentare di salvare i genitori, proteggere i figli dalla violenza e dallo sfruttamento e garantirne la salute e l’istruzione. Purtroppo, in due paesi su tre colpiti dall’AIDS mancano le politiche e le strutture necessarie per garantire ai bambini un minimo di tutela e di assistenza.

Circa un terzo dei minori lavoratori nel mondo sono analfabeti. Secondo un recente rapporto dell’UNICEF, dei 121 milioni di bambini che non frequentano la scuola, più della metà sono femmine. Nel rapporto si legge che quando una bambina è priva delle conoscenze e delle competenze pratiche fornite dalla scuola, essa è esposta a molti più rischi rispetto a una bambina istruita. Infatti, in genere una bambina istruita è più sana e, una volta diventata mamma, i suoi figli avranno meno probabilità di morire al di sotto dei 5 anni; avrà maggiori possibilità di compiere scelte autonome e diventerà una componente più attiva della società. Uno dei principali obiettivi stabiliti dall’ONU è garantire l’istruzione primaria a tutti i bambini del mondo entro il 2015. Anche se alcuni paesi stanno effettivamente compiendo degli sforzi per assicurare alle donne l’accesso a scuola, si tratta di un obiettivo estremamente difficile da realizzare, soprattutto in zone come l’Africa, l’Asia Meridionale ed il Medio Oriente.

Ma quali scelte per il futuro del nostro Pianeta? Quali strade intraprendere per un’economia della solidarietà e della vita? Lo abbiamo chiesto a don Pierluigi Di Piazza, a cui è stata conferita la laurea ad honorem specialistica in Scienze economiche dell’Università di Udine in quanto ideatore, promotore, instancabile animatore del Centro di Accoglienza “E. Balducci” di Zugliano (Pozzuolo del Friuli).

Don Pierluigi così risponde: “Si può guardare al futuro formandosi ad un ethos mondiale comune, cioè ad un modo di sentire comune le situazioni per supportare un’etica mondiale su alcuni principi e criteri da tutti condivisibili e condivisi. Bisogna lavorare per un progetto globale di lunga durata, non con facile ottimismo, non con aiuti occasionali, espressioni di assistenzialismo che non incidono nel sistema, anzi lo confermano.

I cambiamenti a livello planetario chiedono organismi istituzionali e politici internazionali che sostituiscono l’attuale Banca Mondiale e il Fondo monetario Internazionale che spesso concorrono alla contemporanea situazione drammatica del Pianeta.

È indispensabile che quanto prima la politica ritrovi la sua motivazione ed il suo fine: interpretare, progettare, realizzare il bene comune e non assecondare oligarchie, lobby, gruppi finanziari locali e multinazionali.  La possibilità di vita di ciascuna persona sarà realizzabile se risorse e produzioni non continueranno ad essere preda dell’onnivoro mercato, ma potranno essere valorizzati, scambiati, venduti con rispetto della proprietà delle persone e delle comunità.

Il futuro potrà a poco a poco diventare più umano se i diversi saperi, la scienza, la tecnologia, la telematica, saranno verificati dall’etica del bene comune, e non continueranno ad alimentare i privilegi di una piccola parte del mondo.

È indispensabile la partecipazione alla vita sociale, culturale e politica dei diversi soggetti sociali, che siano coinvolti in progetti di cooperazione significativi, che non coprano nuove forme di colonialismo nei confronti dei paesi del cui impoverimento siamo responsabili. L’autentica cooperazione è quella che si progetta insieme, è quella rispettosa delle comunità, è quella dello scambio, non è solo un nostro dare finanziario e tecnologico, è insieme un ricevere umanamente, culturalmente, spiritualmente.

La progressiva umanizzazione del mondo dovrà assumere come criterio dirimente la liberazione dalle diverse forme di violenza, dalla produzione e dal commercio delle armi con una riconversione dell’industria bellica; dovrà incidere sulle cause forzate e drammatiche dell’immigrazione e nello stesso tempo vivere processi di accoglienza e di relazione coinvolta con gli stranieri; dovrà porre attenzione alle persone che vivono particolari situazioni di sofferenza fisica e psichica, di marginalità, di esclusione, di diversa abilità, arricchendosi della loro presenza, sensibilità e qualità. Siamo tutti chiamati ad una vita sobria, essenziale, non determinata dall’avere e dall’apparire, dal consumismo ossessivo, bensì dall’essere profondo e da tutte quelle situazioni che possono alimentarlo ed arricchirlo.  In questo processo tutte le fedi religiose possono assumere una importanza particolarmente rilevante se, fedeli ai loro principi ispiratori, si coinvolgono nella storia impegnandosi con coerenza per la salvezza integrale dell’uomo, per rispondere all’urgenza della giustizia, della pace, della salvaguardia dell’ambiente vitale. In questo senso uno dei segni più importanti per la credibilità delle comunità cristiane e della Chiesa in quanto tale, è l’uso dei beni, del denaro, delle strutture in modo comunitario e solidale. Queste riflessioni e prospettive possono essere considerate utopiche, ma oggi il realismo più veritiero è quello dell’utopia, certo da tradurre in programmi e scelte storiche concrete, una speranza non facile, a buon mercato, ma quella dimensione che trova convinzione e forza proprio nel momento in cui si attua”.

Micaela Marangone

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