Child labour è un lavoro che “danneggia la salute e lo sviluppo dei bambini” e che racchiude tutte quelle attività pesanti legate allo sfruttamento e alla schiavitù. Child work implica forme più leggere di lavoro che non escludono la frequenza scolastica e non sono prive di caratteristiche e finalità positive
L’accostamento della parola lavoro a quella di minore tende ad evocare, nell’immaginario collettivo occidentale, un’idea sostanzialmente negativa, una situazione drammatica che caratterizza in modo ineluttabile i bambini dei cosiddetti “paesi più poveri”. Una definizione del genere, però, non coglie la varietà e la complessità del problema, il quale va affrontato in primo luogo da un punto di vista terminologico: che cosa si intende per minore, e cosa per lavoro minorile? Secondo il primo articolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia (1989), il minore “è ogni persona fino ai 18 anni di età”, ma tale delimitazione sembra valere solo in parte all’interno dell’ambito lavorativo, poiché la Convenzione 138 dell’OIL del 1973 aveva stabilito come età minima per un impiego lavorativo sano e non nocivo la soglia dei 15 anni o, in pochi casi, dei 14 anni, con riferimento a quei paesi caratterizzati da strutture economico- sociali deboli e arretrate. Questo per ovvie ragioni: a 14- 15 anni parte dello sviluppo e dell’obbligo scolastico è conclusa, e la struttura psico- fisica di un giovane è in grado di affrontare una situazione di moderata fatica. Se dunque, in un mondo dove lavorano milioni di “minori” fra i 5 e i 18 anni, il concetto stesso di minore (ma anche di bambino e infanzia) oscilla e può difficilmente essere preso come discrimine tra lavoro accettabile e non accettabile, il concetto di lavoro applicato al minore è ancora più sfumato e variegato, poiché racchiude un’ampia gamma di attività che vanno distinte fra loro e spaziano fra poli opposti. Proprio la consapevolezza di tale complessità ha fatto sì che, a partire dagli anni ‘80, si sia imposta sempre più la necessità di separare l’idea di labour da quella di work, fino ad arrivare alla definizione contemporanea secondo cui il child labour è un lavoro che “danneggia la salute e lo sviluppo dei bambini” e che racchiude tutte quelle attività pesanti legate allo sfruttamento e alla schiavitù, mentre il child work implica forme più leggere di lavoro che non escludono la frequenza scolastica e non sono prive di caratteristiche e finalità positive. Così, un ragazzino che, dopo la scuola, affianca nel lavoro i genitori nella piccola azienda di famiglia non solo si rende utile, ma acquisisce responsabilità e professionalità; naturalmente tutto questo cambia nel caso – più frequente- di bambini impossibilitati ad andare a scuola e costretti a lavorare in condizioni pressoché disumane (ad esempio in fabbriche, piantagioni etc.), per non parlare di tutti quei minori ridotti in una situazione di schiavitù (come può essere quella domestica, da debito, o per prostituzione) caratterizzata da una sostanziale perdita del controllo della propria vita. Alla distinzione tra child labour e child work si associa quindi una serie di altre differenziazioni, come quella tra lavoro a tempo pieno o saltuario, lavoro consenziente o lavoro forzato, lavoro retribuito o non retribuito, in un estremo che può arrivare, come in quest’ultimo caso, a negare al giovane persino il suo statuto stesso di lavoratore.
Il problema generale che però sottende a questa enorme casistica è proprio la difficoltà della percezione e della definizione dei confini: la linea che separa la legalità dall’illegalità, il consenso dalla forzatura, il lavoro dalla schiavitù, la necessità del lavoro dalla sua ingiustizia è spesso troppo sottile, ed è in virtù di tale complessità che la delicata questione del lavoro minorile va affrontata con cautela e attenzione, senza pregiudizi e, soprattutto, senza perdere mai di vista il contesto geografico, economico e socio- culturale di cui si parla. In moltissimi casi, inoltre, sono i bambini in prima persona a voler lavorare, poiché il loro introito risulta spesso necessario per la sopravvivenza, o fornisce i mezzi per frequentare la scuola. In una situazione del genere, però, si può forse dire che il consenso di un minore a lavorare – e soprattutto a essere sfruttato- lo renda più libero? Del resto la questione della consapevolezza non è da poco: non di rado i baby-lavoratori sono privi della coscienza dei propri diritti e non conoscono realtà alternative, e questo fa sì che la condizione in cui si trovano sembri essere l’unica esistente, senza possibilità di cambiamento.
Ma quanti sono concretamente i bambini che lavorano nel mondo, e quali le cause più profonde di questo preoccupante fenomeno?
• UNO SGUARDO AI NUMERI E ALLE CAUSE
Fornire dati precisi sul lavoro minorile nel mondo è difficile, a causa della naturale tendenza del fenomeno a rimanere sommerso. Come mettono bene in evidenza le fonti dell’Unicef, infatti, coloro che utilizzano manodopera infantile evitano di dichiararlo, poiché si porrebbero naturalmente nel campo dell’illegalità. L’occultamento, però, non è certo una stretta prerogativa degli illegali datori di lavoro, poiché molti governi si rifiutano a loro volta di rendere noto il fenomeno per mere ragioni di prestigio e mistificazione. A questo quadro va inoltre aggiunta sia la difficoltà oggettiva di attuare statistiche del genere, sia la non sufficienza in tale campo dei dati quantitativi, i quali andrebbero sempre completati da dati di tipo qualitativo. In mancanza di cifre esatte, l’OIL ritiene che, nei paesi in via di sviluppo, i bambini tra i 5 e i 14 anni coinvolti in situazioni di lavoro siano circa 250 milioni: di questi, circa 120 milioni lavorano a tempo pieno, 130 solo una parte della giornata. A tali cifre andrebbero poi aggiunti i bambini lavoratori di tutto il mondo industrializzato, ovvero Europa, Nord America e Oceania: l’OIL stima che solo negli Stati Uniti lavorino ben 5 milioni di minori, e la stessa cifra sembra valere per i paesi dell’Est europeo, mentre per quanto riguarda l’Italia, un’inchiesta della CGIL del 1999 riporta una stima di almeno 509.000 minori lavoratori. A livello di localizzazione geografica, l’Asia è in termini assoluti il continente in cui è presente il numero più alto di baby- lavoratori, mentre in termini relativi, se si considera cioè il rapporto tra il totale della popolazione infantile e i minori lavoratori, è l’Africa la regione con un maggior impatto di lavoro.
Le cause del lavoro minorile sono diverse e affondano le radici in una serie di ambiti e di problematiche, fra cui primeggia la povertà: nella maggior parte dei casi, il minore si accosta al lavoro a causa dell’estrema indigenza della sua famiglia – un’indigenza causata non solo dalla disoccupazione o dal basso salario dei genitori, ma anche da fenomeni quali lo shock familiare (morte di un membro portante della famiglia) o l’indebitamento. Talvolta, poi, il minore è addirittura senza famiglia, e in tal caso la povertà lo interessa a livello individuale.
A livello più allargato, le cause strutturali del lavoro minorile si ricollegano alle condizioni economiche e sociali di un determinato paese: il peso del debito con i governi esteri e il basso prodotto interno lordo generano una serie di conseguenze interne – prima fra tutte il taglio della spesa pubblica e dei fondi per la scuola- che favoriscono il precoce avviamento al lavoro dei più piccoli. A completare il quadro e ad aggravare il problema vi sono inoltre una serie di variabili culturali: in generale, il basso livello di istruzione dei genitori funge da causa indiretta del lavoro minorile, non solo perché i genitori poco istruiti sono meno consapevoli dei diritti dei figli, ma anche perché, non avendo per primi frequentato la scuola, tendono ad avere sfiducia verso questa istituzione. Lo sfruttamento minorile è poi senza dubbio più intenso nei confronti di coloro che appartengono a minoranze etniche o a gruppi marginali (ad esempio i birmani in Thailandia, gli indigeni in Brasile o – caso più particolare- gli “intoccabili” in India): in questi casi, alla legge istituzionale si aggiunge quella ancor più forte della tradizione e dell’emarginazione, in un groviglio ben difficile da districare.
Ma vi sono anche altri elementi negativi che tardano a scomparire: è convinzione diffusa fra gran parte delle élites del Terzo Mondo che il ricorso alla manodopera infantile non solo contribuisca a far migliorare la bilancia dei pagamenti del proprio paese, ma renda il paese stesso più competitivo all’interno di una economia globalizzata. In realtà, tale visione si rivela controproducente, poiché solo investendo nella forza giovanile si può sperare in un miglioramento qualitativo e a lungo termine di una nazione: diversamente, si continuerà a perpetrare il perverso e involuto circolo “povertà- ignoranza- sfruttamento del lavoro minorile”.
Localizzazione del fenomeno del |
% minori lavoratori sul totale |
% minori lavoratori sul totale |
Africa |
32% |
28,8% |
Asia e Pacifico |
25% |
19% |
America Latina |
20% |
16% |
Africa del Nord |
19% |
15% |
Paesi in transizione |
10% |
3,8% |
Paesi sviluppati |
9% |
2,1% |
* Dati tratti da ILO, A future without Child Labour, Geneve, 2002.
• COSA SI PUO’FARE?
Lungi dall’essere risolto con la semplice abolizione formale – che creerebbe in molti casi solo danni e alimenterebbe il mercato nero- il lavoro minorile va contrastato su molti piani, tramite un’opera sinergica che deve coinvolgere un grande numero di attori sociali e istituzionali: i bambini, le famiglie, i governi, le ONG locali e le organizzazioni internazionali, senza dimenticare i sindacati e gli stessi datori di lavoro. Fondamentali risultano dunque sia l’incremento dell’istruzione gratuita, unita a programmi di sostegno all’economia familiare, sia le grandi azioni di sensibilizzazione a tutti i livelli, le denunce e le campagne di pressione sulle aziende personalmente responsabili dello sfruttamento – le quali dovrebbero per altro dotarsi di codici di condotta che garantiscano il rispetto dei minori impiegati. Solo con il coordinamento di tutti questi fattori si può sperare di arginare il fenomeno del lavoro minorile e di migliorare concretamente le condizioni di tutti i piccoli lavoratori del mondo.
In questo ambito, le “crociate ideologiche” che si fanno promotrici dell’eliminazione in toto del lavoro minorile corrono il forte rischio di tradursi in esemplari fallimenti dal punto di vista operativo.
Carla Muscau
Facoltà di scienze dell’informazione Università Cattolica Milano