Il rapporto ILO parla di una riduzione sia del lavoro minorile che delle sue forme peggiori. Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, WTO e OIL dovrebbero poter lavorare insieme affinché sia raggiunto l’obiettivo universale dell’istruzione gratuita. È però indispensabile il pieno coinvolgimento delle parti sociali nei programmi
Il tema della lotta al lavoro minorile sarà di nuovo all’ordine del giorno della prossima Conferenza dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro con la discussione del secondo Rapporto Globale.
Il quadro proposto dall’OIL, l’unica organizzazione della famiglia delle nazioni Unite che ha una struttura e un processo decisionale tripartito (siedono infatti nel Consiglio di Amministrazione in modo paritario rappresentanti di governi, imprenditori e organizzazioni sindacali) sembra tracciare una evoluzione positiva.
Si parla di una riduzione complessiva del lavoro minorile dell’11% negli ultimi quattro anni e una riduzione del 26% del lavoro minorile nelle sue forme peggiori. Rispettivamente circa 317 milioni di minori attivi economicamente di cui 218 al lavoro e 126 milioni nelle forme peggiori di lavoro minorile.
Sicuramente dal 1992, anno di lancio del programma OIL di lotta al lavoro minorile, di passi in avanti ne sono stati fatti parecchi. Si è finalmente capito che la lotta al lavoro minorile può essere vincente se si attuano strategie e programmi complessi, che coinvolgano molteplici soggetti istituzionali e le parti sociali, che affrontino la questione del lavoro dignitoso degli adulti, del rispetto dei loro diritti, della promozione quindi di una occupazione di qualità, di una istruzione pubblica altrettanto valida per tutti e tutte, mettendo intorno ad un tavolo e con scadenza precise tutti i soggetti coinvolti. Questi anni di lavoro hanno portato risultati positivi e hanno fatto emergere molti problemi complessi. Va detto innanzi tutto che tale lavoro ha prodotto in molti governi un forte cambiamento culturale ed il riconoscimento, non scontato, della esistenza del problema. Pensiamo a paesi come l’India o il Pakistan dove sino a poco tempo fa vi era il rifiuto politico ad accettare l’evidenza di una presenza diffusa del lavoro minorile e la necessità di mettere all’ordine del giorno la definizione di programmi e azioni. Poi grazie alla campagna per la ratifica delle due Convenzioni OIL: la Convenzione 138 sull’età minima e la Convenzione 182 sulle forme peggiori di lavoro minorile si è ottenuto in poco tempo che la maggior parte dei paesi ratificassero tali strumenti. E’ evidente quindi che l’iniziativa politica e le campagne diffuse hanno prodotto risultati positivi, riuscendo a mettere nelle agende di molti paesi ed anche di alcune istituzioni internazionali almeno un intervento parziale. Ma guardando un pochino più da vicino i dati che emergono dal Rapporto OIL, la lettura si fa sicuramente più complessa. Non si intende certo demolire il lavoro sin qui fatto, ma al contrario chiarire come ancora molto ci sia da fare. E sebbene i dati parziali mostrino un trend positivo, non è tutto oro quello che luccica. Intanto i dati sono parziali in quanto non vengono presi a riferimento i paesi industrializzati o di nuova industrializzazione, dove seppur in misura minore vi è tutt’ora una presenza di questo fenomeno e spesso si registra un suo aumento, grazie alla forte concorrenza e ai processi di precarizzazione del mercato del lavoro. Pensiamo solo al fatto che nel Rapporto del Comitato di esperti sulla attuazione delle convenzioni, si denuncia come negli USA, in particolare nel settore agricolo, nella raccolta del cotone, delle ciliegie, etc.. vi sia una presenza di minori al lavoro che va dai 300.000 agli 800.000 che lavorano sino a 12 ore al giorno e che sono esposti a sostanze pericolose e a rischi di vario genere. Oppure al fatto che in Cina non si tiene conto degli oltre 200 milioni di bambini e bambine non registrate che ovviamente sono le prime vittime del lavoro minorile, che non hanno alcun strumento di difesa, visto che non esistono neanche per lo stato.
Inoltre sebbene la maggior parte dei paesi abbia ratificato le due convenzioni, bisogna anche dire che tra i paesi che non hanno ratificato la Convenzione 138 sulla età minima vi sono paesi estremamente popolosi come Cina, India, USA e Brasile. Quindi una buona fascia di minori ancora oggi non gode degli stessi diritti. Lo stesso dicasi per le convenzioni sulla libertà sindacale e sulla contrattazione, ratificate rispettivamente da 145 e 154 paesi tra i quali non vi sono ancora una volta Cina, India e Stati Uniti. Questo rifiuto di ratificare le convenzioni sulla libertà sindacale, a tutt’oggi, impedisce di fare una operazione fondamentale per la lotta al lavoro minorile, ovvero di creare un forte intreccio tra l’empowerment dei lavoratori adulti nella difesa dei loro diritti fondamentali, tra cui la negoziazione di salari dignitosi che diano la possibilità ai figli di questi lavoratori di lasciare più facilmente il lavoro e andare a scuola. Va inoltre sottolineato che soltanto la metà circa dei paesi che hanno ratificato la convenzione ha posto in atto, come indicato nelle convenzioni, dei programmi nazionali. Solo il 4,9 di questi paesi ha messo in atto programmi differenziati per i bambini e le bambine, nonostante che questo sia un obbligo esplicito della Convenzione 182. La riduzione del lavoro minorile che emerge dai dati non sembra inoltre tenere conte del fatto che in questi ultimi due anni vi è stato un forte aumento della disoccupazione degli adulti. L’OIL stessa infatti denuncia che nel 2005 nonostante una crescita economica media del 4.3% tale crescita non abbia inciso sulla disoccupazione, specie tra i giovani. Sempre l’Oil afferma che su più di 2.8 miliardi di lavoratori al mondo 1,4 non guadagna sufficientemente per poter portare le proprie famiglie sopra la soglia dei 2 dollari al giorno e che il tasso di disoccupazione dei giovani è da due a tre volte più alto degli adulti, mentre l’economia informale, i cui salari sono più bassi di circa il 44% rispetto alla economia formale, detiene il 93% di tutti i lavori disponibili per i giovani. Appare quindi alquanto strano che lì dove la disoccupazione degli adulti e dei giovani, sopra l’età minima consentita è cresciuta, vi sia contemporaneamente una riduzione del lavoro minorile. Probabilmente parte della verità sta nel fatto che essendo ridottesi le possibilità di lavoro, queste siano meno fruibili anche dai minori stessi.
Anche un altro punto problematico appare l’obiettivo proposto dal Rapporto, ovvero l’ eliminazione delle forme peggiori di lavoro minorile entro il 2016, senza per altro tenere conto del percorso posto in atto dalla Campagna per gli obiettivi del Millennio, lanciata dall’ONU. Il Rapporto si concentra inoltre quasi esclusivamente sulla attuazione degli obiettivi della Convenzione 182 sulle forme peggiori di lavoro minorile, ma il sindacato ritiene di estrema importanza, così come per altro previsto dalle strategie OIL e dalle stesse convenzioni specifiche, che si mantenga uno stretto legame e complementarietà tra le due convenzioni. Non sfugge a nessuno il fatto che come indicato in precedenza, alcuni importanti paesi ancora oggi facciano forti resistenze nella ratifica della convenzione sulla età minima di accesso al lavoro, come se tutti i problemi fossero solo di evitare che i minori vengano esposti a rischi o a lavori pericolosi. Se come spesso si sottolinea, siamo entrati nella economia della conoscenza, l’elemento centrale per la inclusione sociale dei futuri adulti, sarà la possibilità di aver potuto usufruire di una istruzione di qualità. Nessun bambino o bambina potrà avere un lavoro dignitoso da grande se verrà privato della possibilità di frequentare la scuola e di concentrarsi sullo studio invece che sul lavoro. È quindi indispensabile che l’età minima di accesso al lavoro sia rispettata e che diventi un forte discrimine e non un optional. Questo porta con sè il problema della spesa pubblica dedicata all’ istruzione. Ancora oggi in molti di questi paesi con una forte presenza di lavoro minorile, vuoi per le pressioni delle istituzioni finanziarie internazionali, vuoi per le forti spese per la difesa, non dedicano che risorse residuali ad un investimento strategico, quale l’istruzione gratuita e di qualità per i bambini e le bambine. Sarebbe pertanto utile riuscire innanzi tutto a fare una mappa aggiornata di tali squilibri partendo da questo riuscire ad identificare un programma strategico che coinvolga in modo sinergico e allo stesso modo tutte le istituzioni internazionali. Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, WTO e OIL dovrebbero poter lavorare insieme per evitare che le politiche e le indicazioni siano divaricanti e che si possa raggiungere appieno gli obiettivi posti dall’OIL compreso quello di una istruzione gratuita, universale e di qualità per tutti i bambini e tutte le bambine. Altro elemento fondamentale per una iniziativa di successo è sicuramente l’indispensabile e pieno coinvolgimento delle parti sociali nei programmi e il rafforzamento, lì dove necessario, del loro ruolo. In molti paesi infatti le organizzazioni sindacali fanno addirittura fatica ad esistere e quindi a lavorare. Nel 2005 ci sono stati 145 sindacalisti e attivisti sindacali assassinati, moltissimi sono in carcere o vengono licenziati per la loro attività e quindi in molti paesi manca anche la agibilità politica minima perché questi possano lavorare anche per la eliminazione del lavoro dei minori, soprattutto nella economia informale, in agricoltura, dove servono ingenti risorse organizzative e finanziarie per potere coordinare un lavoro dispersivo e complesso come quello. Non dobbiamo dimenticare inoltre che soprattutto nelle zone franche per la esportazione vi sono moltissime ragazze che lavorano in condizioni estremamente pesanti e senza alcun diritto. Vanno pertanto poste in atto dall’OIL misure e programmi specifici per permettere ai rappresentanti sindacali di lavorare con spazi e agibilità diverse da quelle esistenti oggi e soprattutto senza la paura di essere minacciati dalle imprese o dalle stesse autorità locali, spesso corrotte, quando non insignificanti. Sostituire, come spesso fanno le organizzazioni internazionali e molti governi, il sindacato con le organizzazioni non governative, non porta ad una soluzione strutturale del problema, ma unicamente ad una strumentale e opportunistica sostituzione di soggetti. Il dare voce e ruolo attivo ai lavoratori e ai loro rappresentanti permetterebbe al contrario di creare un cambiamento stabile, che parta dalla promozione del lavoro dignitoso e con diritti per gli adulti e quindi dalla promozione dello sviluppo economico e sociale equo, ricostruendo anche la cosiddetta catena del valore, per far sì che si riconoscano appieno le responsabilità delle imprese nei processi di forte internazionalizzazione produttiva in atto da alcuni anni, interrompendo una concorrenza verso il basso che ha creato dumping sociale, precarizzazione del lavoro e continua presenza del lavoro minorile e della violazione degli altri diritti fondamentali del lavoro. L’altro aspetto fondamentale appare il coinvolgimento e la responsabilizzazione piena degli imprenditori e delle loro organizzazioni. Il loro impegno è fondamentale, la costruzione di un dialogo positivo con i sindacati e di relazioni industriali partecipative permetterebbe di contribuire a costruire la concorrenza leale e non verso il basso, creando le condizioni per far sì che le imprese possano dare un contributo attivo a processi di valorizzazione delle risorse umane e quindi anche delle stesse imprese. La recente costituzione del nuovo governo in Italia permette di rimettere in agenda tali questioni, di rilanciare il tavolo interministeriale e con le parti sociali sul lavoro minorile, con rinnovati obiettivi e con un forte impegno verso la lotta a questa violazione di uno dei diritti umani fondamentali, sia in Italia che nei paesi poveri attraverso una iniziativa sinergica che responsabilizzi ciascuno degli attori e un nuovo modello di cooperazione allo sviluppo.
Cecilia Brighi
Responsabile relazioni internazionali CISL