In alternativa alla famiglia d’origine

A giugno 2003 in Italia esistevano 202 istituti per minori che accoglievano 2.625 ragazzi. Di questi, quasi la metà (48,4%) avevano più di 12 anni (e anche più di 18). Benché circa l’80% degli istituti abbia già previsto un piano di riconversione (in comunità familiari o di altro tipo), l’occasione della loro chiusura dovrebbe costituire lo spunto per pensare all’accoglienza come valorizzazione dei luoghi “famiglia” quale ambito adeguato di vita ed educazione.

Il Piano Nazionale di Azioni e di interventi per la tutela e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva 2003 – 2004 stabiliva che “Gli interventi di politica sociale che vogliono favorire la condizione dei minori si devono collocare innanzitutto in una prospettiva di sostegno alla famiglia secondo un’ottica non più assistenziale, riparatoria e sostitutiva (aiuti a famiglie povere, “assenti” o inadeguate), ma promozionale e preventiva”. Occorre innanzitutto che siano predisposte forme di aiuto per tutelare la permanenza positiva del minore nel nucleo familiare di origine. Laddove non è sufficiente l’aiuto alla famiglia d’origine, va privilegiata l’opera di un altro ambito familiare: sarà un dato di qualità e di pregnanza sociale se nel nostro Paese, nei prossimi anni, aumenteranno il numero di famiglie non solo disponibili all’affido ma anche ad essere soggetto protagonista di un’opera e una struttura di accoglienza diurna e/o residenziale.

Il 2 ottobre 2002 all’interno dell’Osservatorio Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza è stato istituito il “gruppo di monitoraggio permanente sulla chiusura degli istituti entro il 31 dicembre 2006”.

Questo gruppo di lavoro il 16 marzo 2004 ha presentato il documento per la stesura di un “Piano di interventi per rendere possibile la chiusura degli istituti per minori entro il 2006” ai sensi del Piano Nazionale di azioni e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva per il biennio 2002-2004; il tema è stato ripreso nel Convegno Nazionale “Tutti i bambini hanno diritto a una famiglia”, organizzato dalla Regione Piemonte in collaborazione con l’Osservatorio Nazionale il 22-23 marzo 2004.

Gli obiettivi fissati nel documento sono:
– Promuovere l’istituto dell’affidamento familiare
– Promuovere l’adozione
– Diffondere lo strumento dell’adozione “mite”
– Riconoscere particolari requisiti per le realtà comunitarie preposte all’accoglimento di bambini- vittime di esperienze traumatiche
– Incentivare comunità in cui è prevista la presenza di famiglie come responsabili educativi.
– Favorire la sperimentazione di altre forme innovative di accoglienza

Alla data del 30/06/2003 erano presenti sul territorio nazionale 202 strutture residenziali definite “istituti per minori” e 2.625 minori effettivamente accolti in tali strutture, di cui quasi la metà (48,4%) avevano più di 12 anni (anche più di 18). Benché circa l’80% degli Istituti avesse già previsto un piano di riconversione (o in comunità familiari o in comunità di altro tipo), l’occasione della chiusura degli istituti dovrebbe costituire lo spunto per ripensare tutta la materia dell’accoglienza nella direzione della massima valorizzazione dei luoghi “famiglia” come ambito adeguato di vita e di educazione dei minori.

Gli attori di questo complesso processo sono lo Stato, le Regioni, gli Enti Locali, il Terzo Settore ed in particolare le Associazioni Familiari. Viene così a crearsi un rapporto interistituzionale pubblico/pubblico, che innesca prassi virtuose di sussidiarietà.

I contenuti salienti e innovativi

Il gruppo di lavoro, che si è sviluppato per alcuni mesi, ha dovuto innanzitutto affrontare il fatto che per venire incontro a una gamma di esigenze come quelle rappresentate dai bambini che vivono fuori dalla famiglia era necessario sviluppare una altrettanto vasta gamma di risorse.

L’affido familiare è stato lo strumento principe previsto. Ma è sotto gli occhi di tutti la constatazione che nella società odierna la difficoltà generale a pensarsi come famiglia e la difficoltà pratica, economica e organizzativa, a fare famiglia non possono non avere effetto sulla disponibilità ad allargarne i confini e ad estenderne oneri e responsabilità. Ed è ugualmente sotto gli occhi di tutti che, quanto più vengono e verranno sviluppati gli interventi che tendono a conservare al bambino il proprio ambito familiare di origine, pur se in difficoltà, tanto più si avrà a che fare, quando il bambino è avviato a un collocamento al di fuori della sua famiglia, con bambini gravi, difficili, spesso diventati grandi nel tempo che è intercorso tra l’emergere della difficoltà e il momento in cui ci si è arresi all’impossibilità di cambiare utilmente l’ambito di origine, non raramente vittime di vere e proprie esperienze traumatiche e quindi niente affatto capaci di stringere nuovi legami che non siano segnati dai modelli operativi interni conseguenti a quelle esperienze.

Oltre a ribadire quanto già noto, diventava necessario pensare in tre direzioni:

1. le ‘nuove frontiere’ dell’accoglienza dei minori fuori dalla famiglia
2. la necessità di dare supporti professionali all’accoglienza
3. l’opportunità di valorizzare interlocutori e mediatori che possano facilitare e sostenere l’accoglienza

1. Citiamo alcune affermazioni contenute nel documento, relative all’affido, all’adozione, a nuove forme di accoglienza, a nuove forme di comunità per minori con particolari bisogni e complessità:

a) rendere obbligatorio l’affidamento familiare dei neonati e dei lattanti (0-24 mesi) promuovendo idonei progetti e campagne di sensibilizzazione
b) che venga prevista, per ogni minore dichiarato adottabile e per il quale il Tribunale per i minorenni competente non disponga l’affidamento preadottivo entro 1-2 mesi dalla dichiarazione definitiva dello stato di adottabilità e che non sia già inserito in una famiglia affidataria, una scheda conoscitiva che possa essere trasmessa agli altri Tribunali per i minorenni e a tutte le altre istituzioni competenti … per trovare una famiglia adeguata alle necessità di questi minori
c) sensibilizzare la società civile sull’adozione di minori in situazioni difficili: disabili, affetti da patologie, adolescenti, traumatizzati, minori stranieri non accompagnati e minori provenienti da fallimenti adottivi ….. erogare contributi o rimborsi spese per il sostegno alle adozioni cd. difficili
d) diffondere lo strumento dell’adozione cd. mite come peculiare applicazione dell’adozione nei casi particolari prevista dalla quarta ipotesi dell’art. 44 della legge 184/83
e) promuovere progetti di affidamento familiare, come alternativa all’inserimento in strutture di accoglienza di soggetti in grave difficoltà e/o caratterizzati da un percorso assistenziale particolarmente complesso (es. handicap, psicopatologie, abuso e maltrattamento, precedenti affidi falliti), con la collaborazione di famiglie selezionate e formate, così come promosse e/o sperimentate in alcune zone con i cd. “servizi famiglie professionali”
f) sempre più l’allontanamento del bambino dalla sua famiglia è correlato all’esistenza di esperienze traumatiche intra ed extra familiari. In questi casi ci si trova ad affrontare non soltanto la situazione di disagio, solitamente grave, che ha portato all’allontanamento, ma una fase particolarmente critica che si somma al disagio di base. Infatti l’allontanamento, per quanto attuato con intento protettivo, cade su soggetti che portano i segni di esperienze traumatiche come un paradossale rafforzamento di vissuti molto negativi di disvalore ed espulsione precedentemente sperimentati. Appare quindi opportuno prevedere strutture di accoglienza specificamente attrezzate per il trattamento della crisi e per assicurare al minore adeguati livelli di tempestività dell’intervento, sicurezza e protezione.

2. Il riconoscimento che l’accoglienza fuori dalla famiglia di soggetti minorenni, e tanto più quanto più difficili, abbisogna di sostegni competenti e professionali traspare in altri punti:
a) programmare e creare prestazioni psico-socio-educative a supporto delle famiglie che scelgono la strada dell’affidamento e dei bambini affidati sia durante il percorso per arrivare all’affido sia nella fase successiva all’accoglienza in famiglia;
b) programmazione e attivazione di prestazioni psico-socio-educative a supporto delle famiglie che scelgono la strada dell’adozione cd. difficile, e dei bambini adottati sia durante il percorso per arrivare all’adozione sia nella fase successiva all’accoglienza in famiglia
c) formazione delle famiglie che intendono adottare sensibilizzandole alle problematiche dei bambini traumatizzati
d) predisporre, anche in collaborazione con le associazioni familiari e di privato sociale corsi di formazione per le famiglie che si propongono per l’affido e l’adozione (e per gli operatori dei servizi sociosanitari) che introducano alla conoscenza delle forme complementari di accoglienza familiare per i minori in grave difficoltà, con particolare riguardo a quelli con esperienze traumatiche
e) promuovere realtà comunitarie diurne e residenziali caratterizzate come servizi specialistici di trattamento della crisi nei quali il periodo di accoglienza copre momenti di transizione brevi, dove il trauma subito dal minore presenta caratteristiche acute e di “crisi” che hanno bisogno di un lavoro psico-educativo intenso e competente capace di accogliere la fase drammatica, con alte professionalità e competenze specialistiche … per ottenere la riduzione della successiva permanenza del bambino in strutture di accoglienza educative.
f) implementare negli affidi a parenti verifiche e sostegni in considerazione del rischio che il bambino affidato rimanga in tal caso esposto alle dinamiche familiari che già l’hanno danneggiato.

3. Da ultimo, per l’obiettivo di valorizzare interlocutori e mediatori che possano facilitare e sostenere l’accoglienza, diventa interessante l’apporto delle associazioni familiari:
a) promuovere la preparazione delle famiglie disponibili (e idonee) all’affido avvalendosi delle associazioni familiari ……. garantire l’aiuto alle famiglie affidatarie attraverso la promozione dei gruppi di famiglie e delle associazioni familiari
b) promuovere reti di collaborazione tra associazioni familiari e Enti Locali per la gestione degli affidi ….. promuovere l’investimento in formazione per gli operatori per l’apprendimento di modalità di lavoro con soggetti collettivi (per esempio le associazioni familiari)
c) nel contesto delle comunità per minori, particolare significato e valenza educativa hanno le comunità la cui coppia residente è effettivamente una famiglia che si assume la guida, la responsabilità educativa e la conduzione di una comunità
d) incentivare strutture educative polivalenti, residenziali e diurne, in cui siano presenti possibilmente famiglie per creare ambiti familiari comunitari aperti all’accoglienza;
e) incentivare Enti Gestori che attivino realtà di accoglienza complementari tra loro: affido, comunità, centri diurni, con lo scopo di contrastare l’interruzione di un’esperienza in caso di crisi e farla invece evolvere anche con diverse tipologie che tengano conto dei mutamenti che potrebbero accadere.

In sintesi, rimandando alla lettura completa del documento citato (scaricabile dal sito www.welfare.gov.it/sociale/minori/documenti), il risultato a cui è arrivato il “gruppo di lavoro per la stesura di un documento per la chiusura degli istituti nel 2006” avverte che per rispondere ai bisogni sempre più complessi e specialistici dei minori fuori dalla famiglia occorre, oltre che promuovere con la massima professionalità risorse di cui già conosciamo le potenzialità, anche diventare creativi e valorizzare l’apporto delle reti sociali non istituzionali.

 

Marinella Malacrea
Neuropsichiatria infantile, psicoterapeuta, Centro TIAMA (Tutela Infanzia Adolescenza Maltrattata), – Milano, socio fondatore C.I.S.M.A.I. (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia), esperto Osservatorio Nazionale sull’Infanzia e l’Adolescenza. Ha fatto parte del gruppo di lavoro citato.

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