Una strategia che promuove la salute

L’introduzione in Italia delle prime esperienze dell’istituto della mediazione penale è stata accompagnata da atteggiamenti alterni di entusiasmo e di criticità, quest’ultima legata soprattutto ai rischi di strumentalizzazione di un percorso che, sviluppandosi a latere del procedimento penale, potrebbe perdere quelle caratteristiche di volontarietà e confidenzialità che gli sono proprie

Sviluppata nell’ambito della giustizia riparativa, la mediazione penale considera il reato non solo come violazione dell’ordinamento giuridico, ma anche come evento relazionale – spesso collocato all’interno di dinamiche complesse – che priva autore e vittima del riconoscimento della loro identità e dignità (Ceretti, 2001).  Questo concetto, che potrebbe risultare di non immediata evidenza, soprattutto in un contesto, quello penale, che sembra privilegiare rappresentazioni ancorate all’atto illecito e alla sua repressione, piuttosto che alla dimensione emotiva e relazionale, costituisce l’elemento chiave per comprendere le ragioni dello sviluppo della mediazione penale.  è stata, infatti, proprio l’esigenza di dar voce alle vittime, spesso relegate ad un ruolo marginale nel procedimento giudiziario, e di intraprendere dei percorsi di responsabilizzazione degli autori di reato, in termini di confronto con le conseguenze dell’atto delittuoso, ad aver favorito l’avvio di percorsi di riparazione e mediazione.  In Italia tale avvio è stato forse meno agevole rispetto ad altri Paesi europei e, in un primo periodo, ha interessato solo la giustizia minorile, tradizionalmente più incline alle sperimentazioni. Le ragioni di questo ritardo hanno probabilmente a che fare con un ordinamento giuridico che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale e non assegna una collocazione specifica alla mediazione, se non nell’ambito della competenza penale del giudice di pace, e ad una cultura che, forse, privilegia altre strategie negoziali.  L’introduzione delle prime esperienze di mediazione penale, peraltro, è stata accompagnata da atteggiamenti alterni, di entusiasmo e di criticità, quest’ultima legata soprattutto ai rischi di strumentalizzazione di un percorso che, sviluppandosi a latere del procedimento penale, potrebbe perdere quelle caratteristiche di volontarietà e confidenzialità che gli sono proprie.  La consapevolezza di questi rischi, accentuati anche dal fatto che la mediazione penale viene generalmente proposta dalle istituzioni, piuttosto che richiesta direttamente dalle parti, ha portato a definire un percorso preliminare all’incontro di mediazione vero e proprio, percorso che coinvolge separatamente le parti ed è finalizzato ad informarle, esplorarne le aspettative, raccogliere il loro consenso, valutare la fattibilità della mediazione. Quest’ultima, a differenza di quanto avviene in altri settori e, in particolare, in ambito familiare, si realizza attraverso un unico incontro, articolato in diverse fasi. Ad una prima fase di narrazione, fa seguito un momento in cui sono le parti ad interagire e ad interrogarsi sul conflitto che le oppone. Attraverso gli scambi e le domande ciascuno può accedere ad una dimensione più profonda di sé e dell’altro: è in questa fase che, da un lato, trova espressione la sofferenza generata dal conflitto, dall’altro si genera un dialogo trasformativo che consente alle parti di risemantizzare il gesto di spregio e restituirsi quote della loro identità (Ceretti 2001). Una volta ristabilita la comunicazione e ridefinite le regole della relazione le persone possono concordare azioni di natura riparativa, simboliche prima che materiali (fase finale).

A conclusione del percorso di mediazione viene inviata una comunicazione alla magistratura circa l’esito della stessa, comunicazione che, nel rispetto della confidenzialità, non contiene indicazioni circa i contenuti emersi.

            Già da questi elementi, che delineano i tratti essenziali della mediazione penale, è possibile cogliere la portata della proposta mediativa: lungi dall’essere un’azione strumentale o una manifestazione di buonismo, la mediazione consente alle persone di riappropriarsi di responsabilità decisionali circa il conflitto che le oppone, di attribuire nuovi significati all’atto che le ha private della loro dignità, di ridefinire le regole della loro interazione e di contrastare quel senso di insicurezza (generato dal fatto reato) che ha importanti ripercussioni nella vita sociale del singolo e della collettività nel suo complesso. In questa prospettiva la mediazione sembra inscriversi nell’ambito di quelle strategie volte a promuovere la salute nella sua accezione più ampia: prendere in carico il conflitto penale nelle sue componenti emotive e cognitive implica, infatti, prendersi cura dei legami sociali che costituiscono elemento indispensabile alla sopravvivenza umana.

Elisabetta Kolar
assistente sociale
vicepresidente dell’ ordine degli  assistenti sociali del  Friuli Venezia Giulia

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