Attualmente manca non solo una regolamentazione, ma anche una definizione stessa della mediazione: non c’è nessuna legge che si faccia carico dei requisiti che un mediatore debba avere, del percorso formativo che debba seguire, delle regole cui deve attenersi nello svolgere il proprio compito
La mediazione familiare in fase di separazione personale dei coniugi sconta un innegabile paradosso: chiama a collaborare insieme due soggetti che insieme non vogliono più stare. Una coppia in situazione conflittuale non sembra – per definizione – disposta alla mediazione (mentre una coppia che in conflitto non è della mediazione non ha per definizione bisogno). Il luogo più idoneo è sempre apparso quello penale ( iniziative a fini riparatori e conciliativi del giovane reo con la persona offesa dal reato). Tuttavia non mancano previsioni di legge anche nell’ambito civile: così la normativa sulla protezione dagli abusi familiari contempla espressamente l’intervento di centri di mediazione familiare (art. 342 ter comma 2 c.c.) mentre il (tormentato) disegno di legge sull’affidamento condiviso dei figli in caso di separazione o divorzio fa espresso riferimento ad un centro di mediazione accreditato, pubblico o privato. La testardaggine normativa sembra quindi disattendere ogni obiezione e proseguire in un percorso che valorizza l’istituto attribuendogli un rilevo non trascurabile. Alle obiezioni sul piano pragmatico si può affiancare la constatazione che manca – allo stato – non solo una regolamentazione ma una definizione stessa della mediazione: non c’è nessuna legge che si faccia carico dei requisiti che un mediatore debba avere, del percorso formativo che debba seguire, delle regole cui deve attenersi nello svolgere il proprio compito.
In più – nella particolare ottica che qui rileva – manca una definizione del rapporto tra mediazione e processo. Il quadro attuale si può quindi così sintetizzare: la mediazione presuppone la condivisione (o quanto meno la non totale opposizione) dei soggetti ad un progetto comune; ciò costituisce quello che i giuristi chiamano un facere infungibile, cioè un comportamento non direttamente coartabile; l’istituto potrà quindi svilupparsi soltanto trasversalmente, attraverso mutazioni culturali sul piano generale cui si accompagnino forme persuasive su quello specifico, a cura di organizzazioni di soggetti professionalmente validi nella prospettiva di consolidarsi in pubblico servizio. Dico subito che alternative di coazione indiretta ben poco ingresso dovrebbero ottenere in questo delicatissimo campo ( minacce sanzionatorie di restrizione dei diritti di visita o aggravi patrimoniali mi sembrano esulare clamorosamente dal contesto, mentre attribuirei la patente di accettabilità a periodi di sospensione obbligatoria del procedimento quale forma indiretta di pressione sulla coppia separanda o divorzianda perché si presti alla mediazione).
E’ ben vero che le modalità alternative alla risoluzione giudiziale dei conflitti in un’ottica coesistenziale sono viste con favore dalle legislazioni europee – che conoscono in larga parte la mediazione ed in minor misura prevedono il pubblico finanziamento – e cominciano ad affermarsi sul piano della mentalità e del costume, ma ciò mi appare molto più problematico in situazioni che non soltanto coinvolgono rapporti affettivi, ma ne presuppongono un guasto tendenzialmente irreversibile, venendo a toccare nervi scoperti in situazioni conflittuali in cui non è raro che la regolamentazione dei rapporti con i figli venga utilizzata per finalità puramente ricattatorie o punitive. Di più, non mancano anche sul piano concettuale indirizzi opposti che sottolineano l’enfasi salvifica dei mediatori ad ogni costo e segnalano l’invasività e l’oscuro, intrusivo controllo sociale che strumenti anche commendevoli nei propositi possono oggettivamente produrre.
E allora?
Ben vengano iniziative quali il GEMME (Gruppo Europeo Magistrati per la Mediazione), iniziative formative nei singoli distretti delle Corti d’appello coinvolgenti magistrati – ordinari e minorili – ed operatori, norme di legge che non si limitino a presupporre i Centri di Mediazione ma che si facciano carico di disciplinarli adeguatamente e, perché no, di finanziarli. Ma ciò può bastare? Trascuro profili d’approccio diversi da quello pragmatico: non mi preme dibattere se il valore ideologico della mediazione sia democratico piuttosto che liberalizzante, se un’agile deregulation si faccia effettivamente preferire ad una rigidità regolamentare, se il mediatore familiare sia una risorsa ovvero un intruso, se la perpetuazione della cogenitorialità che in definitiva la mediazione persegue sia una chimera alla Disneyland piuttosto che un obiettivo realistico. Mi interessa soltanto una valutazione di utilità effettiva che presuppone un positivo giudizio di fattibilità non di pura facciata in un contesto attuale che – sottolineo – non prevede prassi utilizzatorie da parte dei Tribunali della separazione o del divorzio. Premetto ancora che lo sforzo va a mio avviso rivolto ad una riorganizzazione del sistema familiare in controtendenza rispetto al momento di diaspora conseguente alla crisi del rapporto nell’interesse precipuo dei figli minori (aderisco personalmente al partito dei puerocentrici in base al semplicistico raffronto – al di là di ogni altra considerazione – tra la volatilità del rapporto coniugale e la stabilità di quello tra genitori e figli).
Aggiungo che l’estraneità del procedimento di mediazione a quello giudiziale (che – sottolineo subito – ne può recepire il favorevole risultato, ma non passivamente) fa insorgere problemi di rispetto delle garanzie che la sola verifica formale in sede di omologa della separazione o di sentenza di divorzio congiunto non sembrano appagare, soprattutto in situazioni di sperequazione nei rapporti tra i coniugi (ad esempio l’uno per tradizione familiare radicato nel territorio, l’altro extracomunitario in posizione debole), in un quadro generale fattuale che registra come costanti l’affievolimento della risorse economiche della madre (normalmente) affidataria e la rarefazione dei rapporti con il padre. L’istituto potrà rafforzarsi soltanto se saranno chiaramente previsti il rifiuto di omologa ovvero la sentenza di rigetto allorché le clausole dell’accordo conciliativo non appaiano conformi all’interesse dei figli o del coniuge più debole, così estendendo il controllo giudiziale ad aspetti meritali, estensione giustificata dall’esigenza di conferire protezione alle parti meno tutelate. Può offrire un supporto alla riflessione una sia pur veloce analisi delle esperienze già maturate, subito premettendo che non condivido l’ottimismo di chi ritiene che la mediazione (quanto meno nel settore specifico di cui stiamo parlando) stia finalmente transitando dalla fase pionieristica a quella di consolidamento.
E’ evidente che molte perplessità si dissolvono allorché la coppia aderisca, se non spontaneamente, almeno volontariamente alla proposta di mediazione, in quanto entrambi i coniugi intendano individuare una soluzione soddisfacente e siano in ciò sostenuti da una progettualità alternativa rispetto a quella matrimoniale, eliminando velleità agonistiche e volontà di sopraffazione dell’altro soggetto, vissuto come avversario e non come interlocutore. E’ altrettanto evidente (e lo insegna l’esperienza) che un’imposizione coattiva può generare rigetti irreversibili e quindi rendere del tutto frustrante il ricorso all’istituto. Prendendo a campione le risultanze dell’attività del Centro di mediazione familiare dell’Azienda sanitaria n. 10 di Firenze ( la fonte è in Minori e Giustizia n. 3/2000, 138 ss.), si nota come l’intervento sia stato nella maggior parte dei casi (in tutto 154 nel biennio) attivato ad iniziativa di entrambi i partners (55,2 %), ovvero di lei ( 32,5%) di lui ( 8,4%) o del giudice peraltro minorile (1,9%). I 154 utenti hanno fornito motivazioni che nel 41/42 % dei casi (su di un complessivo 81,8 % di coppie sposate) riguardano la separazione (accordi per la separazione e loro modifiche, coinvolgimento del coniuge non affidatario, conflitti tra questi ed il figlio ecc…). Sembra opportuno segnalare che il grado di istruzione dei soggetti richiedenti era per la maggior parte assai elevato (laurea o diploma) e che l’84% aveva dei figli.
Ciò premesso, che fare, dunque?
Personalmente e conclusivamente ritengo che:
– alla mediazione (postulando l’esistenza di centri operativi attrezzati, di risorse umane adeguate e professionalmente formate, di contribuzioni pubbliche – chè l’onerosità dell’approccio costituirebbe ulteriore e non indifferente remora) si potrà senz’altro fare ricorso in caso di condivisione;
– alla condivisione si potrà giungere anche con il previo intervento del giudice che sensibilizzi le parti con contatto diretto e le avvii al percorso conciliativo attraverso il passaggio mediatorio, con il cenno che il segnale giudiziale sembra maggiormente forte, per il suo valore simbolico, rispetto ad un approccio extragiudiziale vissuto dall’utenza come troppo dimesso;
– forma indiretta tollerabile di pressione potrà essere individuata nella previsione in sede normativa di (ben circoscritti e limitati) periodi di sospensione del processo ove si ritenga di attribuire alla mediazione la valenza di una forma di tentativo obbligatorio di conciliazione;il tutto con la garanzia giurisdizionale della tutela dei figli e – eventualmente – del genitore più debole data dall’estensione del controllo del giudice alla valutazione di merito delle clausole in chiave protettiva.
Arrigo De Pauli
Magistrato procuratore della repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Trieste (1995-1999)
Presidente del Tribunale di Gorizia (1999-2004)
Presidente del Tribunale di Trieste dal 2004