Nell’articolo pubblicato anche su www.diritto.it si evidenzia come il panorama nazionale presenta caratteristiche tipiche della fasi iniziali di sperimentazione, da un lato forse per carenza di cultura giuridico – sociale, dall’altro per un’impostazione ideologica diffusa che vede nella punizione, e conseguentemente nel sistema retributivo, un’efficace e garante strumento di difesa sociale e che fa fatica ad assorbire il concetto di riorganizzazione della relazione autore – vittima
La cultura della mediazione in Italia si propone a partire dagli anni ’80 sulla base delle esperienze provenienti dal Nord America e dall’Inghilterra. Fra i vari tipi di mediazione che si prendono a modello in Italia quello più praticato riguarda la gestione dei conflitti nelle situazioni di separazione e divorzio, in cui si indica come modalità la degiurisdizionalizzazione dell’intervento di mediazione. Le trasformazioni sociali nelle cosiddette civiltà industriali e ad alto sviluppo tecnologico e scientifico sottolineano l’aspetto peculiare della complessità dei sistemi viventi. Tale approccio connota il rapporto uomo – natura in una complessità vincolata e vincolante in cui la persona è parte attiva del sistema. La riflessione che segue analizza il concetto di devianza non solo dal punto di vista della letteratura psico – sociale e criminologica, intende proporre altresì una lettura del fenomeno secondo il paradigma della giustizia restauratrice, attraverso la lente del modello sistemico. Il diritto chiamato a regolare le contese tra individui ha prodotto storia, azioni e comportamenti che da sempre si sono dibattuti tra l’annosa dicotomia aiuto – controllo. La sociologia del diritto ha per molti versi affrontato questo problema ponendo soprattutto l’accento su concetti tendenti ad analizzare le prerogative dello Stato a punire in nome della difesa sociale. La sociologia ha prodotto molta letteratura in tema di rapporto tra società e diritto contribuendo a individuare una lettura dei comportamenti devianti in termini di variabili psico – sociali e ambientali in relazione all’individuo autore di reato e alla reazione sociale. Lo studio del comportamento criminoso si è spostato così da un modello bio – psicologico ad un approccio tendente a valutare l’azione deviante in un sistema di interazioni complesse. In campo criminologico Von Hentig ad esempio ha approfondito il carattere essenzialmente interattivo del crimine, contribuendo insieme ad altri autori che si sono succeduti sull’argomento alla nascita della vittimologia ( branca della criminologia ) che come scienza empirica viene fatta risalire al 1948, anno in cui vide la pubblicazione il libro “The Criminal and His Victime”. Tra i concetti elaborati da Von Hentig quello che più marcatamente rende il concetto di interazione deviante si identifica nel rapporto che lega la vittima al delinquente, rapporto che può produrre una vera e propria inversione di funzioni, con assunzione da parte della vittima del ruolo di elemento scatenante e determinante l’evento, ossia il ruolo attivo della vittima. Uno dei punti cardini dell’intervento di mediazione penale è il concetto di riparazione che lega l’autore di reato alla vittima simbolica o reale che sia, e in tal senso è stato rilevante il contributo come citano Gatti e Marugo di Margerj Fri, che la suggerì nel suo libro “Arms of the law”, pubblicato nel 1951. Il panorama italiano in tema di mediazione penale minorile presenta caratteristiche tipiche della fasi iniziali di sperimentazione, forse per carenza di cultura giuridico – sociale da un lato, dall’altro per un’impostazione ideologica diffusa che vede nella punizione e conseguentemente nel sistema retributivo un’efficace e garante strumento di difesa sociale e che fa fatica ad assorbire il concetto di riorganizzazione relazionale autore – vittima. Le norme processuali penali in Italia almeno apparentemente non sembrano fornire spazi applicativi agli interventi di mediazione, tuttavia il legislatore offre possibilità d’azione in tal senso sia nel rito minorile che in quello ordinario. Gli interventi di mediazione nel campo degli adulti forniscono spazi di azione nel vasto campo delle misure alternative, mentre nel procedimento minorile trovano ampia applicazione nella sospensione del processo e messa alla prova di cui all’art. 28 del D. P. R. 448/88, in cui spesso vengono previste attività riparative e riconciliative. A ciò va aggiunto come gli interventi di mediazione possono essere attivati nelle querele di parte ex art. 564 C. P. P., decongestionando in tal modo il lavoro dei Tribunali. Pur non essendo ancora in presenza di una cultura definita e di ordinamenti strutturati sul piano legislativo e formativo, anche in Italia sono stati avviati interventi sperimentali che hanno portato alla costituzione di Uffici per la Mediazione Penale a Torino, Bari e Milano, anche se con approcci e metodologie differenziate. L’economia processuale porta inevitabilmente a valutare il rapporto costi – benefici in relazione agli interventi trattamentali attivati in favore dei minori. D’altronde le stesse Regole minime per l’Amministrazione della Giustizia Minorile ( C. D. “Regole di Pechino”), hanno sollecitato le nazioni a legiferare adeguatamente in materia di diritti umani, tenendo come primario obiettivo primario la tutela dell’infanzia e dell’adolescenza. Il legislatore italiano ha risposto con attenzione a tali sollecitazioni amplificando il concetto di penale sociale, finalizzando gli interventi educativi e della norma giuridica a beneficio del minore e del contesto sociale. In tale ottica l’intervento di mediazione penale si connota di una valenza educativa e sociale in quanto la ricomposizione del conflitto autore – vittima volge non solo a beneficio dell’individuo, ma anche dell’intero sistema comunitario. La peculiarità dell’intervento di mediazione penale in effetti consiste da un lato nel concetto di partecipazione attiva del reo al processo di cambiamento attraverso una rielaborazione del proprio comportamento deviante, dall’altro supera la rigida separazione tra autore del reato e vittima, ridefinendo il conflitto tra le parti in termini di riorganizzazione relazionale in un quadro di opzioni che vanno a soddisfare anche le attese del sistema sociale attraverso programmi di riparazione e riconciliazione con la parte lesa. Forse non è esagerato affermare che in tal senso l’intervento di mediazione finisce per connotarsi di una valenza preventiva quantomeno dei comportamenti criminali recidivanti. Le esperienze internazionali sorreggono queste ipotesi operative, in particolar modo quelle attivate in Austria, Germania, Francia e Stati Uniti, paesi in cui è molto alto il numero delle vittime che aderiscono ai programmi di mediazione. “Studi in tal senso indicano la necessità nella vittima del bisogno di riconoscere l’autore del reato, i suoi motivi, il bisogno di superare il trauma del reato; non mancano tuttavia in detti studi gli effetti psico – pedagogici dell’intervento di mediazione che per la vittima si identifica in un rafforzamento dell’autostima per il ruolo attivo e determinante svolto, e per l’autore del reato un maggior senso di responsabilità e di appartenenza alla comunità locale”. (DE LEO G. 1996). Gli interventi di mediazione nella letteratura criminologica vengono inquadrati nel modello restaurativo – riparativo che contempla come oggetto il danno, il reato come espressione del conflitto, l’azione intesa come finalità riparativa attraverso le figure di mediatori nel quadro di un contesto responsabilizzante. Il dibattito, anche se ancora agli inizi nel nostro paese, verte sui due modelli: riparativo e riconciliativo. A ben vedere la differenza è sottile da un lato e labile dall’altro, considerando che l’obiettivo comune rimane comunque la risoluzione del conflitto attraverso una riorganizzazione del sistema di relazione autore – vittima. Il sistema di riparazione del danno è collaudato in Francia e Stati Uniti, mentre l’esperienza austriaca verte prevalentemente sulla riconciliazione pur non trascurando eventualmente altri aspetti. La tesi prevalente in Italia è quella di tipo riparativo in presenza di aspetti giuridico sociali e culturali che vedono nella riparazione del danno- reale o simbolico che sia- una prerogativa irrinunciabile. Al di là dell’adozione di modelli tuttavia il rischio di un’etichettamento degli interventi di mediazione nel nostro paese deriva dall’obbligatorietà e irrinunciabilità dell’azione penale, per cui essendo la committenza un’istituzione anche di controllo si rischierebbe di inficiare un setting protetto di negoziazione e ricomposizione del conflitto, vanificando così l’azione messa in atto dal mediatore, anche se con le migliori intenzioni. Alcuni autori come GATTI e MARUGO (1994) sottolineano che “…gli obiettivi della mediazione non sempre sono chiari, ed in particolare margini seri di ambiguità esistono in merito alla questione cruciale se la mediazione debba essere centrata sui bisogni della vittima o sulle esigenze riabilitative del reo, oppure sulle funzioni primarie della giustizia…” D’altronde i programmi di mediazione rientrano nel cosiddetto concetto della DIVERSION (interventi extrapenali), anche se la diversion è rimasta prigioniera della contraddizione aiuto – controllo, allontanandosi da un’ottica di degiurisdizionalizzazione. Negli Stati Uniti i fondatori del Movimento V. O. R. P. sostengono ad esempio che la mediazione – riparazione non è una semplice tecnica di gestione dei conflitti il che richiama al concetto di giustizia restaurativa. La definizione di questo concetto produce due principi di base: l’idea di riconciliazione e quello di comunità. Questi principi costituiscono il nucleo centrale dei programmi di mediazione – riparazione negli Stati Uniti denominati “Victime Offender Reconciliation Program”, il cui punto di forza è costituito da incontri tra la vittima e il reo, con l’aiuto di un terzo espresso dalla comunità. Tale tipo di approccio ribalta il concetto di intervento giuridico nel senso che non viene individuato lo Stato nell’offesa (così come sostenuto nel modello di giustizia criminale), bensì la vittima e il sistema comunità (giustizia restauratrice). E’ possibile tuttavia ridurre nella fase attuale i rischi di stigmatizzazione degli interventi di mediazione penale? Alcuni spazi operativi e pragmatici sembrano in un certo qual modo consentirli. Il punto più qualificante ad esempio è dato dalla necessità strategica che lo spazio fisico per esercitare gli interventi di mediazione non siano un’aula giudiziaria o la sede di un Servizio minorile della Giustizia, bensì un ambiente non etichettante, lontano dai ritmi e dai ritualismi rigidi, in cui è possibile produrre un setting protetto e autentico per le parti, ad esempio Sedi di Enti locali o del Privato Sociale. Altro elemento importante è dato dalla composizione degli Operatori dell’Ufficio di Mediazione Penale, possibilmente misti tra figure ministeriali e dell’Ente Locale o del Privato Sociale. La soluzione ideale sarebbe ovviamente quella della figura del Mediatore completamente estranea al sistema di committenza. L’impostazione testé citata è riconducibile al modello teorizzato soprattutto in Inghilterra, dove in una prospettiva di intervento sistemico si tende a unificare in un’unica rete tutte le organizzazioni pubbliche e private che intervengono nella socializzazione del minore deviante attraverso un’azione omogenea e coordinata. La fase attuale nel nostro paese richiede fra l’altro l’individuazione di un’identità professionale specifica e di un percorso formativo ad hoc per il mediatore penale, funzione svolta da diverse figure di operatori sociali: criminologi, psicologi, etc…, per cui è necessario puntare su un profilo più strutturato e mirato, non essendo possibile pensare a un mediatore per tutte le stagioni. Nella costruzione dell’identità del mediatore penale vanno considerati alcuni elementi culturali quali prerequisiti per una definizione professionale e operativa. Tali elementi vanno collegati in una nuova visione del fenomeno “devianza minorile”, in un’ottica complessa multidisciplinare che riguarda l’approccio al fenomeno dal punto di vista antropologico, psicosociologico, pedagogico e giuridico in considerazione che nella mediazione l’annotazione principale, a parere di molti autori, è data nel ritenere il setting esteso in senso interdisciplinare. Questa dimensione complessa produce i prerequisiti culturali che possono consentire al mediatore penale la costruzione di un’identità normativo – professionale e tecnica, al contempo lontana dai condizionamenti dei modelli culturali e delle esigenze di reazione sociale del momento in risposta al problema crimine. L’identità del mediatore penale è tale solo nel momento in cui essa non va a costituirsi in termini strumentali ai bisogni di risposta giudiziaria e di allarme sociale. Questo non vuol dire distacco dalla realtà, ma viverla al di dentro con la dovuta autonomia, utile per il raggiungimento dei fini della mediazione. Forse per evitare l’etichettamento sarebbe più opportuno che non si utilizzassero i termini “mediatore penale” o “mediatore giudiziario”, bensì la dicitura “mediatore sociale” o “mediatore comunitario”, in quanto la mediazione penale è uno degli aspetti della mediazione sociale per le interconnessioni che la caratterizzano. L’identità del mediatore penale o sociale include essenzialmente tre aree di riferimento:
Formativa, Tecnicistica,Operativo – funzionale.
La prima area include tutto il terreno teorico che riguarda l’aspetto formativo. Allo stato attuale, almeno nel nostro paese la formazione e il ruolo del mediatore presentano aspetti molto confusivi. Il mediatore è in genere autodidatta, in qualche occasione improvvisato, e sempre è un operatore sociale istituzionale, con pregressa esperienza unilaterale, prevalentemente concentrata sui bisogni dell’autore di reato, il più delle volte diviso a metà tra interventi di mediazione e azioni centrate sull’obiettivo socio – istituzionale del mandato. Tutte le generazioni di operatori sociali, dal passato a quelle più recenti, sono state addestrate secondo canoni formativi, diversi da quelli che devono caratterizzare la formazione del mediatore, che non deve essere unilaterale, bensì aprirsi ad una visione a 360 gradi, in un’ottica multiteorica e interdisciplinare complessa. L’area tecnicistica è quella che riguarda il vivo dell’intervento di mediazione: il sapersi relazionare alle parti al di sopra di esse, senza giudicare, senza diagnosticare, stimolando continue opzioni, rendendo alle parti il ruolo attivo nella gestione del conflitto e nelle possibili soluzioni, restituendo alle stesse la dignità di persone, anche attraverso l’esposizione delle loro ragioni e del loro vissuto di dolore. Per gli aspetti segnalati nell’esposizione delle prime due aree la mente del mediatore deve essere scevra da soluzioni preconcette e lontana da condizionamenti teorici, utilizzando il suo bagaglio culturale non come primo obiettivo, ma sul piano degli effetti che le sue conoscenze multidisciplinari possono produrre in relazione alla vittima, all’autore di reato e al sistema comunitario. La cura di questi aspetti può consentire al mediatore sociale che opera nell’ambito di un intervento di mediazione penale di costruire la terza area, caratterizzata da elementi di autonomia funzionale e operativa, utili per l’azione che è chiamato a svolgere. L’acquisizione di questi passaggi potrebbe consentire al mediatore un’identità specifica sul piano operativo e funzionale, evitando confusioni di ruolo e di mandato con altre figure professionali storiche (caratterizzate da obiettivi e ruoli rigidi), soprattutto in relazione ai destinatari della mediazione, in modo che questi non percepiscano la mediazione come strumento di valutazione giudiziaria, incrementando così i rischi di vittimizzazione nella parte lesa, e di etichettamento da parte dell’autore di reato. L’ideale sarebbe che gli standards formativi per i mediatori rispecchiassero una didattica specifica per la costruzione di un habitat mentale e ideologico – culturale lontano dagli schemi ordinari degli operatori sociali, e che il mediatore fosse una figura completamente estranea e svincolata dal sistema di committenza; ciò garantirebbe un’autonomia funzionale e culturale del mediatore, in considerazione del fatto che la mediazione deve caratterizzarsi come elemento di diversion, sganciandola il più possibile dal sistema di giustizia formale. Gli interventi di mediazione in effetti partono dalla necessità di superare i modelli rieducativo e retributivo; il punto qualificante di questa nuova impostazione è dato dal fatto che i comportamenti antisociali costituiscono comunque un’interazione deviante e che i soggetti, siano essi autori o vittime, si identificano in una dimensione saldata psico – sociale, in cui le azioni sono parti interconnesse di variabili di personalità e contesto e dove la risposta alla devianza è un problema comunitario e di interconnessione. Così come si presenta oggi la pratica della mediazione in campo penale, in Italia, lascia ampi margini di possibilità di sviluppo a condizione che si alimenti la cultura in materia e si assesti sul piano ideologico nel tessuto sociale, nella cultura degli operatori dei Servizi e di quelli del Diritto. Va assorbita essenzialmente la necessità di superare il concetto retributivo della pena, incanalando il fatto reato in una dimensione ideologica nuova tra i due attori principali del processo penale (vittima di reato e autore), diminuendo la pressione del concetto di Stato, e restituendo alla Comunità una funzione interventista, come risorsa e strumento d’azione per reali processi di cambiamento individuali e collettivi. La mediazione col tempo dovrà configurarsi come una risorsa extragiudiziale e non come alternativa al sistema di giustizia formale, caratterizzandosi così come vera “diversion”. In Italia, ovviamente, siamo ancora agli albori nella pratica di mediazione, tuttavia sembrano esistere gli ingredienti per lo sviluppo di questa terza via, giustamente definita “giustizia restauratrice”. I segnali più importanti in tal senso sono quelli forniti in materia processuale minorile, riportando nell’ordinamento italiano i principi base della Dichiarazione O. N. U. in materia di diritti dei minori e del ruolo attivo della Comunità nel recepire i loro bisogni, evitando di delegare il meno possibile le risposte ai comportamenti devianti e criminosi ai sistemi di controllo rigido. Il cammino è ancora lungo prima che la mediazione diventi una cultura e un’ideologia d’intervento; lo sforzo va soprattutto intensificato per superare quelle esigenze di difesa collettiva che richiedono strumenti di intervento rigidi, pur in presenza di reati non gravi ma che purtroppo destano allarme sociale. L’inserimento della mediazione nella nostra cultura, per essere considerata come risorsa, deve entrare nella mente del tessuto sociale ad ogni livello, implementandosi nel sistema sul piano ideologico. I passaggi ovviamente dovranno essere graduali per non correre il rischio di imporre una risorsa attraverso la norma, con dubbi esiti.
Emanuele ESPOSITO
Pedagogista, Criminologo Clinico, Mediatore Familiare e Comunitario Sistemico, Socio Ordinario della Società Italiana di Criminologia e dell’Associazione Italiana Mediatori Sistemici.