Dell’errore e del rimedio

Nella giurisprudenza della magistratura di sorveglianza l’impegno riparativo ha assunto una connotazione retributiva, in aperta contraddizione con i principi delle risoluzioni del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite che sottolineano come ogni attività e obbligazione effettivamente riparativa si fonda su libertà, con sensualità e spontaneità.

L’attenzione per la tematica della giustizia riparativa nell’ambito dell’esecuzione della pena dei condannati adulti si è sviluppata soltanto nell’ultimo decennio in ordine al dettato normativo di cui all’art. 47 della Legge 26 luglio 1975 n. 354 “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative della libertà e successive modifiche” che riguarda l’istituto giuridico dell’affidamento in prova al servizio sociale. Tra le prescrizioni che il soggetto in misura alternativa deve rispettare è infatti previsto al 7° comma che lo stesso “… si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del suo reato ed adempia agli obblighi di assistenza familiare.”   

In realtà tale previsione normativa non fu mai applicata fino agli anni 90, se non come una delle indicazioni generiche all’interno di un elenco di prescrizioni scarsamente individualizzate, ed ad essa non veniva attribuito particolare valore e significato né dagli operatori penitenziari né dalla magistratura di sorveglianza. Prevaleva eventualmente in taluni casi – peraltro assai rarefatti – l’attenzione per l’aspetto relativo all’adempimento agli obblighi di assistenza familiare, senza però anche in questo caso una contestualizzazione culturale, giurisprudenziale e metodologica nell’ambito del paradigma riparativo e della tutela della vittima.   

  Le prime concrete esperienze applicative del citato 7° comma sono state avviate da taluni Tribunali di sorveglianza in relazione al fenomeno di Tangentopoli e nei confronti di soggetti appartenenti alla categoria criminologica genericamente definita dei “colletti bianchi”, contingenza temporale che porta ad affermare come la prescrizione riparativa  di fatto nasca sull’onda  della crisi del paradigma trattamentale.  

Si ritiene infatti che nella misura alternativa – che nell’immaginario collettivo assume spesso il significato di una rinuncia a infliggere una pena – il contenuto trattamentale sia divenuto sempre più sfumato e sempre meno visibile e circostanziabile laddove un obbligo alla riparazione, tradotto poi nel concreto spesso in una mera monetizzazione del danno provocato dal reato, sembra invece garantire che la pena alternativa abbia uno spessore concreto e oggettivamente riconoscibile.  

In tal modo l’impegno riparativo – si può asserire – è venuto ad assumere nella giurisprudenza della magistratura di sorveglianza una connotazione inevitabilmente retributiva, in aperta contraddizione con i principi delle risoluzioni del Consiglio d’Europa e delle Nazioni Unite che sottolineano (Commentaire sur l’annexe, Raccomandazione (99)19, § V.3, punto 27) come ogni attività e obbligazione effettivamente riparativa si fonda sulla libertà, consensualità, spontaneità dell’autore del fatto, e non può quindi essere oggetto di inflizione, di condanna, di prescrizione o di comando. “La mancanza di consenso – cita anzi  la risoluzione 2000/14 – ECOSOC, al punto 15 – non può essere usata come giustificazione per una più severa condanna nel successivo procedimento penale”.  

In relazione  all’esigenza di un approfondimento della materia e di definire modelli di giustizia riparativa in linea con le indicazioni contenute nelle Raccomandazioni delle Nazioni Unite (Principi Base sulla giustizia riparativa in ambito penale – 2000/14) e del Consiglio d’Europa (Raccomandazione (99)19, è stata – com’è noto – istituita con DCD del 26 febbraio 2002, la Commissione di studio sulla “Mediazione penale e la giustizia riparativa”[1], che ha iniziato a svolgere un significativo lavoro in ordine all’obiettivo assegnatole.  

Lo sviluppo delle prime riflessioni teoriche sulla complessa tematica è stato affiancato da un lavoro di ricerca e analisi  circa gli orientamenti e le iniziative operative già avviate dagli Uffici di esecuzione penale esterna sul territorio (già Centri di servizio sociale per adulti), e l’analisi dei dati relativi all’applicazione della cosiddetta “prescrizione riparativa” in 4511 casi di affidati in prova al servizio sociale[2].  

I risultati di dette analisi hanno confermato l’importanza di procedere ad un chiarimento preliminare sul significato e la distinzione tra prospettiva riparativa e la dimensione retributiva della pena nonché sulla interrelazione tra impegno riparativo e contenuti trattamentali del tempo della pena.  

Riguardo al primo punto le riflessioni della Commissione contenute nel documento esitato nel marzo 2005 hanno portato ad affermare che la riparazione non può in alcun modo integrare una modalità sanzionatoria, segnalandone anzi alcuni aspetti distintivi, che si riportano brevemente.  

Mentre la condanna ha il suo focus sul passato, la riparazione pone l’accento sul futuro (Zehr – Wright) e mentre nel primo caso è lo Stato (soggetto) che “impone una condanna” al delinquente (oggetto) e gli irroga una pena la cui esecuzione tende a ripristinare in qualche modo lo squilibrio provocato dal fatto reato rispetto al sistema delle norme, nel secondo è il reo (soggetto) che, se ha maturato una consapevolezza rispetto al danno provocato a terzi, al valore della relazione infranta dal reato, e delle aspettative sociali simbolicamente condivise (Ceretti, Mannozzi), fa sua una prospettiva “riparativa”  che tende alla riconciliazione, al rinsaldamento di quella relazione, e di ciò che viene chiamato “patto di cittadinanza”.  

In altre parole se con la condanna viene riconosciuta la responsabilità del reo rispetto al fatto commesso (retrospective responsability), la prospettiva riparativa pone il reo in posizione attiva rispetto all’assunzione di un impegno, di una responsabilità verso un’altra persona/vittima e la collettività (prospective responsability) (M.S. Moore).  

Il concetto di responsabilità, come capacità di assumere un impegno, acquista così nella prospettiva riparativa un aspetto progettuale che manca totalmente al riconoscimento di una responsabilità giuridica (Foddai). 

Riconsiderare il significato del paradigma riparativo nell’ambito dell’esecuzione di una pena detentiva o in misura alternativa ha significato a partire dalle citate considerazioni ricollocare ogni ulteriore riflessione con riferimento al disposto di due articoli fondamentali del regolamento di esecuzione (D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230) e precisamente l’art. 27comma 1[3] e l’art. 118 comma 8[4] in cui si fa riferimento al compito degli operatori penitenziari di garantire sostegno al condannato perché questi attui un percorso di riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere e sul danno prodotto e le possibili azioni di riparazione praticabili, tutto ciò – va sottolineato – in una prospettiva di reinserimento nella società libera compiuto e duraturo, di quella finalità rieducativa della pena costituzionalmente garantita. 

L’argomento richiede evidentemente ben altri approfondimenti ma ciò che risulta chiaro – secondo la Commissione – è che qualsiasi azione riparativa, nell’ambito dell’esecuzione della pena di condannati adulti, non può che essere, in estrema sintesi che l’effetto di un complesso lavoro di responsabilizzazione del reo, di quel percorso che il condannato deve essere sollecitato ad intraprendere dagli operatori penitenziari. 

È proprio partendo da concetti quali revisione critica e responsabilizzazione del reo[5] infatti – osserva sempre l’estensore del documento –  che si snoda il ruolo dell’Amministrazione e dei suoi operatori, in riferimento non solo e non tanto all’ art. 47 comma 7° o.p. –  il cui carattere “prescrittivo” non è direttamente riconducibile al concetto di  giustizia riparativa come delineato in ambito internazionale – ma soprattutto al disposto di cui agli articoli  27 comma 1° e 118 comma 8° del D.P.R. 230/2000.  

Il tempo della pena diventa, nella prospettiva riparativa, momento per riattivare il circuito delle responsabilità individuali e sistemiche (Pitch), occasione per il condannato di essere sostenuto verso l’assunzione di una responsabilità individuale e il riconoscimento di una dimensione di responsabilità sociale e collettiva.  

E se talvolta in questi anni di applicazione della legge penitenziaria,  l’attenzione per il principio dell’individualizzazione dell’azione rieducativa si è progressivamente smorzata, e l’osservazione è divenuta spesso una mera presa d’atto del comportamento assunto dal condannato in maniera inevitabilmente strumentale rispetto all’ottenimento dei benefici,  oggi la norma novellata del reg. di esecuzione richiama a rimettere il reo in un vasto sistema di relazioni, e a “guardare all’uomo sociale, considerandolo come “luogo e sorgente di azione” (Amerio) come principale informatore in merito alla realtà che non subisce ma costruisce…” (Patrizi).

Ridefinire una metodologia tecnico-professionale adeguata significa pertanto per gli operatori penitenziari riappropriarsi del mandato che la legge loro affida, recuperando il significato  del proprio ruolo in ordine al “diritto” del condannato a ricevere le sollecitazioni e l’aiuto per maturare la disponibilità/capacità a intraprendere un percorso trattamentale e riparativo.  

Il condannato dovrebbe porsi nella prospettiva di uscire dal sé, dalla posizione egoistica e auto-centrata, per andare “verso” l’altro, verso la vittima, la Comunità, ma anche verso la propria famiglia, vittima essa stessa dell’evento criminoso e degli effetti della carcerizzazione del congiunto.  

L’analisi brevemente descritta e le linee di indirizzo esitate dalla Commissione hanno visto lo sviluppo in parallelo di alcune ipotesi sperimentali di azioni riparative efficacemente praticabili nell’ambito dell’esecuzione di una pena detentiva.  

In particolare infatti sono state impartite direttive agli Uffici periferici onde promuovere esperienze riparatorie ricorrendo in linea privilegiata alla tipologia dei Community Services, con la creazione una rete tra gli istituti / servizi penitenziari e i soggetti istituzionali e non presenti sul territorio, e la definizione di accordi convenzionali con gli enti locali, associazioni, organismi pubblici e privati per l’espletamento di attività riparativa a favore della collettività da parte dei soggetti condannati secondo i criteri previsti  nel  modello di convenzione predisposto dalla Commissione. La realizzazione da parte del condannato di un’attività socialmente utile, fatta per “iniziativa volontaria” e gratuitamente, assume infatti un valore incontrovertibile nel percorso trattamentale del condannato. 

La Commissione sta inoltre sviluppando una ipotesi di sperimentazione di invio in mediazione di  soggetti condannati adulti avvalendosi della disponibilità assicurata da alcuni degli Uffici di mediazione penale per minori o per la giustizia di pace, già operanti sul territorio nazionale, e definendo una procedura che è stata portata all’attenzione del Garante per la privacy sotto il profilo della riservatezza dei dati personali della vittima del reato.  

Va citato infine il progetto di istituzione di un Ufficio polifunzionale di giustizia riparativa e mediazione penale e sociale avviato nella Regione Lazio  su mia proposta, quale presidente della Commissione che mira a sperimentare un modello organizzativo e strutturale che superi la caratteristica di settorialità (ufficio di mediazione penale per minori, per la giustizia di pace, di mediazione sociale..) delle attuali esperienze italiane, assicurando nel contempo la peculiarità dei diversi settori del penale e le correlate differenti modalità di invio in mediazione delle diverse tipologie di utenza che potrà accedere a detti uffici (minori, adulti..). Particolare attenzione viene dedicata alla tutela della vittime. Detto Ufficio rappresenterebbe la necessaria interfaccia del sistema penale ed in particolare quindi anche dell’amministrazione penitenziaria per sviluppare adeguatamente percorsi di giustizia riparativa secondo le direttive degli organismi internazionali di cui si auspica il compiuto recepimento da parte dello Stato italiano.

 
Maria Pia Giuffrida
direttore generale del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria


[1]  La Commissione di studio sulla “Mediazione penale e giustizia riparativa”, coordinata dalla dott.ssa Maria Pia Giuffrida, è stata istituita dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con Decreto del 26 febbraio 2002. Il suo coordinatore ha avuto altresì affidato, con ordine di servizio n. 902 del 21/01/2002,  l’incarico di approfondire eventuali ipotesi di sperimentazione di uffici di mediazione penale per adulti e coordinarne l’attività.
[2]
I risultati dei monitoraggi sono pubblicati su www.giustizia.it/ministero/struttura/dipartimenti/dirgen/giusrip1.htm#commissione.
[3] che prevede che all’art. 27 il condannato durante il percorso di osservazione e trattamento sia sostenuto dagli operatori penitenziari per sviluppare  una “riflessione sulle condotte antigiuridiche poste in essere, sulle motivazioni e sulle conseguenze negative delle stesse per l’interessato medesimo e sulle possibili azioni di riparazione delle conseguenze del reato, incluso il risarcimento dovuto alla persona offesa”.
[4]
che prevede che gli operatori degli Uffici di esecuzione penale esterna si adoperino a favorire “una sollecitazione ad una valutazione critica adeguata, da parte della persona (condannata), degli atteggiamenti che sono stati alla base della condotta penalmente sanzionata, nella prospettiva di un reinserimento sociale compiuto e duraturo”.
[5]
Vedi Documento citato del marzo 2005 “Giustizia riparativa e mediazione penale. Linee di indirizzo sull’applicazione nell’ambito dell’esecuzione penale di condannati adulti” diffuso in allegato alla circolare n. 3601/6051 del 14 giugno 2005.

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