“Spauracchio? No, la Russia è un alleato nella lotta al terrorismo”

di Gabriele Lagonigro

Fausto Biloslavo, giornalista de Il Giornale e Panorama, è da trent’anni in prima linea su tutti i fronti caldi. Ha conosciuto bene il mondo sovietico e, negli ultimi mesi, ha vissuto di persona la crisi in Ucraina

Fausto Biloslavo, il sesto da sinistra, “embedded” (il cronista di guerra aggregato ad un reparto militare) con il 3° Battaglione del 207° Corpo d’armata afghano a Chest i Sharif.

Fausto Biloslavo, il sesto da sinistra, “embedded” (il cronista di guerra aggregato ad un reparto militare) con il 3° Battaglione del 207° Corpo d’armata afghano a Chest i Sharif.

Oltre trent’anni di giornalismo sul campo. O, meglio, sul fronte. Fausto Biloslavo è senz’altro fra i reporter italiani con la maggiore esperienza in contesti di crisi internazionali. Ha iniziato negli anni ’80, prima in Libano, poi in Afghanistan ed in altri conflitti cosiddetti “minori” sparsi in tutto il continente africano, dove morivano a migliaia, ma lontani, lontanissimi dai riflettori.
Oggi Biloslavo lavora principalmente per Il Giornale, Il Foglio e Panorama. Era lì, assieme a Gian Micalessin (appena rientrato dalla Siria per il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti) e ad Almerigo Grilz, scomparso in Mozambico nel 1987. Era il giovane terzetto della Albatross, l’agenzia di free lance nata – e partita – da Trieste che negli anni riuscì a garantirsi credibilità internazionale grazie ad un lavoro “de visu”. Il Libano ai tempi dell’invasione israeliana, l’Afghanistan dei mujahidin in lotta con l’Armata Rossa l’Africa instabile delle mille rivolte locali. E poi, ancora, la guerra dei Balcani, l’Iraq, per arrivare ai giorni nostri, con la crisi fra Russia e Ucraina ispezionata in lungo e in largo, dal Mar Nero al Donbass, ed il ritorno, nel corso di queste ultime settimane, a Kabul ed Herat, per capire – e farci capire – che cosa ne sarà del tormentato Afghanistan dopo il ritiro della Nato. Sempre in prima linea. Sempre sui fronti caldi.
In trent’anni di giornalismo sul campo, ha avuto modo di conoscere da vicino il mondo sovietico, prima, e quello russo, più tardi. Il quadro politico ed economico è profondamente mutato. È cambiata anche la mentalità o, invece, nonostante le trasformazioni del Paese, è rimasta identica?
“Il comunismo non c’è più, però una parte di ciò che quel sistema incarnava, cioè il nazionalismo, il mito della grande guerra patriottica, è rimasto, anche se la falce e il martello fanno ormai parte del passato. I Russi sono i Russi, patriottici, orgogliosi della loro terra e delle loro tradizioni. Sono sempre stati così ed oggi questo loro senso di appartenenza nazionale è riemerso grazie a Vladimir Putin, che incarna questi valori. Questi sentimenti popolari sono ritornati in auge soprattutto verso il fronte esterno. Mi riferisco soprattutto a quanto successo in Crimea ed a quanto sta capitando in Ucraina. Non vogliono farsi mettere i piedi in testa da nessuno ed è errato pensare, soprattutto per i Governi occidentali, di poter trattare con Mosca così come si faceva dopo il crollo dell’Unione Sovietica. La Russia è come un orso, un animale tendenzialmente buono, ma quando si entra nel suo territorio, se si va a disturbarlo nel suo cortile, reagisce con aggressività”.
Quello che le è successo negli anni ’80 in Afghanistan, la lunga detenzione e poi l’investimento ad opera di un camion sovietico, l’hanno segnata nei suoi rapporti successivi con il grande mondo russo?
“Erano altri tempi e la Russia di oggi non è più l’Unione Sovietica di allora. Ricordo quando venni interrogato dal Kgb in Afghanistan: in quel momento capii che erano i più seri, i più organizzati, e Putin, che è stato uomo di quei servizi segreti, con la sua capacità attuale lo conferma. Mi sottoposero ad una finta fucilazione, poi cercarono di ammazzarmi con un camion, ma, fortunatamente, non ci riuscirono. Ma ripeto: c’era la guerra fredda ed oggi quel periodo storico non esiste più. Personalmente ho superato appieno quelle disavventure ed oggi – lo dico sinceramente – mi trovo forse più vicino alla mentalità russa che a quella americana. Degli Stati Uniti non capisco i continui errori dettati da incapacità o da eccessivo buonismo, come nel caso, in politica estera, dell’atteggiamento tenuto sulle Primavere arabe o sulla stessa crisi ucraina.
Per carità, Mosca non è il paradiso delle libertà, ma nemmeno uno spauracchio. È un Paese maturo, con i suoi punti deboli ed i suoi lati oscuri, che fa parte a pieno titolo dell’Europa, e che, in un certo senso, ha capito prima di noi i limiti di una Democrazia troppo spinta, come la nostra, che talvolta sfocia nell’anarchia e che porta un sindaco a celebrare le nozze gay nonostante siano vietate dalla legge. Di questo i Russi sono sicuramente intimoriti. Da qui nasce la loro avversione per quei diritti civili che cozzano contro le loro tradizioni plurisecolari, contro il loro conservatorismo sociale e l’ortodossia della loro Chiesa”.
La Russia attuale: un vicino pericoloso o un alleato importante nella lotta al terrorismo internazionale?
“Deve essere un partner fondamentale per sconfiggere l’integralismo islamico. La Russia non è assolutamente quello spauracchio mondiale che ci siamo inventati con la crisi in Ucraina, innescata dagli occidentali comportatisi da apprendisti stregoni. Una volta risolta la questione Donbass, la Russia dovrà tornare ad essere quell’alleato privilegiato per combattere il terrorismo”.
Meriti e demeriti di Vladimir Putin. La gente è con lui, nonostante una situazione economica piuttosto complessa. Perché?
“Le zone d’ombre esistono, inutile negarle, ma Putin ha una grande abilità personale che gli permette di godere di grande popolarità trasversale. Ha ridato al Paese quel senso di potenza internazionale perduto dopo il crollo del comunismo. È poi riuscito a far fuori uno ad uno tutti gli oligarchi in rapidissima ascesa negli anni ’90 protagonisti indiscussi delle rapine di stato perpetrate durante l’epoca di Eltsin. Anche questo ha contribuito alla credibilità di cui il Presidente riesce ancora a beneficiare. La situazione economica, in effetti, non è al top, ma non dimentichiamoci che questo popolo ha vissuto per settant’anni in miseria e, rispetto a quell’epoca, non credo che la maggior parte se la passi così male”.
Forse, la popolarità di Putin è agevolata anche dal panorama mediatico interno. Tv e giornali sono quasi tutti assoggettati al potere.
“I grandi media russi praticano il lavaggio del cervello, però è anche vero che non esiste una vera e propria censura. Non c’è il fascismo, in Russia, non c’è il Minculpop a condizionare così pesantemente stampa e tv. L’opposizione ha vita dura, però riesce a trovare i propri spazi. Pur con tutti i suoi limiti, non mi sento di definirlo un regime totalmente illiberale”.
Come evolverà la situazione nel Donbass ucraino?
“La tregua in atto esiste solamente sulla carta. Ogni giorno abbiamo notizie di morti e feriti e persino l’artiglieria pesante non ha mai smesso di sparare. A mio avviso, l’unica soluzione è quella politica. La riconquista ucraina di tutta la zona sud-orientale è impossibile. La strada potrebbe essere quella di un’autonomia per il Donbass molto accentuata, ma all’interno dei confini di Kiev. Una sorta di Alto Adige, per intenderci. Forse, con la sua esperienza diretta, l’Italia potrebbe agevolare questo processo. L’autonomia potrebbe essere anche economica. Su questo, tutto sommato, i separatisti potrebbero trovarsi d’accordo. L’altra soluzione è quella di un sistema federativo più spinto. Starebbe bene ai filorussi, ma non al Governo ucraino. Se, invece, si va avanti con il muro contro muro, si rischia di creare un’altra situazione in stile Transnistria, deleteria per tutti, soprattutto per l’Europa”.
Nell’ultimo decennio, l’ex mondo sovietico è stato investito da una serie di rivolte più o meno popolari: quelle di Maidan a Kiev, la rivoluzione delle rose in Georgia e persino proteste di piazza contro il Governo nel lontano Kirghizistan. È pensabile, nell’immediato futuro, che simili movimenti possano prendere piede anche in Russia?
“Al momento, no. Finché Putin mantiene questo livello di popolarità senza stringere ancor di più il controllo sui diritti civili fondamentali, non vedo rivoluzioni all’orizzonte. È chiaro, però, che la situazione è piuttosto borderline e, se sarà accentuata ulteriormente la repressione, il rischio di far esplodere la protesta aumenta sensibilmente. Ma si tratta di un’eventualità che non considero molto attuale. E poi non dimentichiamoci che quelle rivolte in Ucraina, e prima ancora in Georgia, sono state in un modo o nell’altro fomentate dall’Occidente. È piuttosto improbabile che in Russia possa accadere la stessa cosa”.
Pensa che la rivoluzione ucraina dello scorso inverno sia nata dal popolo o sia stata, invece, creata e gestita da agenti (o Paesi) esterni?
“Yanukovich, il Presidente rovesciato nel febbraio scorso, era comunque destinato a cadere. Si reggeva su un sistema corrotto ed ampiamente discutibile sotto molti aspetti. Però non so se senza determinate spinte l’ex regime si sarebbe dissolto allo stesso modo. È difficile dire con esattezza se la rivolta sia scaturita per forze esterne, ma, forse, un aiuto da qualche Ong Soros-dipendente, per non fare nomi, è arrivato. Certo che chiamare filo europeisti i militanti di Pravy Sektor, il gruppo di estrema destra ucraina in prima linea nella protesta, è francamente fuori luogo. L’ideologia di alcuni movimenti che hanno fatto cadere Yanukovich è più vicina al fascismo e al nazismo che ai valori su cui si basano i Paesi occidentali. Se qualcuno, dall’Europa o da Oltreoceano, ha sobillato la protesta, aveva forse sottovalutato l’anima estremista di quella parte di Ucraina che l’inverno scorso scese in piazza per far cadere l’ex Governo”.
Il crowdfunding giornalistico sta funzionando bene. Il Giornale ha già coperto diversi reportage grazie a questo nuovo sistema di finanziamento. Che cosa avete in programma per il futuro?
“Siamo stati in Ucraina, Libia e Afghanistan. Gian Micalessin è appena rientrato dalla Siria. Gli obiettivi attuali sono Iraq, Pakistan e Nigeria per riportare la situazione dei Cristiani perseguitati nel mondo. Per questo progetto abbiamo già raccolto 37.000 euro, un risultato straordinario. Sul sito de Il Giornale, nel link dedicato a Gli occhi della guerra, ci sono le istruzioni per sostenere, anche attraverso piccole donazioni, questa nuova formula di giornalismo partecipato”.

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