L’era (geopolitica) della “Resilienza”

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Di qualunque cosa si discuta (dall’economia alla scuola), da un po’ di tempo in qua non si fa che parlare di “resilienza”. Si tratta di termine preso a prestito dalla scienza dei materiali che indica la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi. Oggi è molto in voga e sta a significare la capacità psicologica di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà; la capacità, insomma, di piegarsi senza spezzarsi, di andare avanti. 

Fateci caso, lo stesso programma di investimenti (di cui finora non si sa molto) che l’Italia deve presentare alla Commissione europea nell’ambito del Next Generation EU – lo strumento per rispondere alla crisi pandemica provocata dal Covid-19) si chiama Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). 

Senza dubbio, il Covid-19 sta testando la resilienza di ciascuno di noi, a livello personale, ma sull’Atlantic Uri Friedman ha scritto che il mondo sta entrando in un’era geopolitica in cui la resilienza sarà il più importante indicatore della “potenza” di un paese.

Ogni età geopolitica – scrive Friedman – riconosce un valore aggiunto ad alcune forme specifiche della potenza di una nazione – il controllo degli oceani e i possedimenti coloniali prima delle due guerre mondiali, le armi nucleari e le alleanze durante la Guerra fredda, il soft power dopo la Guerra fredda. E la nuova era inaugurata dal Covid -19 ha fatto lo stesso, facendo emergere la rilevanza del potere della resilienza. Friedman definisce quest’ultimo come “la capacità di un paese di assorbire gli shock sistemici, di adattarsi a tali sconvolgimenti e di riprendersi rapidamente da essi” e sull’argomento ha raccolto il punto di vista di storici e teorici delle relazioni internazionali.

Friedman cita anche lo storico Sulmaan Khan, che nel marzo scorso ha scritto su ChinaFile che quando è arrivato il Covid-19, “al virus non è importato quante fossero le vostre portaerei o quanti istituti Confucio foste in grado di erigere in giro per il mondo” – l’accenno è rivolto al soft power globale della Cina – “o quali fossero le dimensioni della vostra economia. Il virus vi ha chiesto solo come avreste trattato le persone meno facoltose in un periodo di malattia. Con quanta efficacia avreste tracciato i contatti delle persone contagiate. Quando velocemente il vostro sistema sanitario sarebbe riuscito a far fronte a domande impreviste. Non vi risparmierà del tutto, naturalmente, ma se foste in grado di soddisfarne le domande con onestà noiosa e tecnocratica, sarebbe più facile per voi sopravvivere”.
Del resto, nel suo nuovo libro “Ten Lessons for a Post-Pandemic World” (che raccomando, visto che non manca molto a Natale), Fareed Zakaria ha messo in guardia che il cambiamento climatico e la frenetica attività dell’uomo potrebbero portare verso una “crisi a cascata” nei prossimi anni. E nell’opinione di Friedman e degli esperti che cita, sarà proprio la resilienza di fronte a queste crisi a stabilire se un paese riuscirà a rimanere a galla o sarà destinato ad affondare economicamente, socialmente, in relazione alla salute dei suoi cittadini ma anche per quel che riguarda il potere geopolitico che detiene.

Le cosiddette medie potenze come l’Australia e la Nuova Zelanda hanno visto crescere il loro peso internazionale proprio grazie all’abile gestione del Covid-19, scrive Friedman, ma non c’è ragione perché anche gli altri paesi non possano cogliere l’occasione e valorizzare la loro resilienza. 

Si tratta, in altre parole, di resistere e reagire; di adattarsi per sopravvivere. Una capacità che agli italiani non è mai mancata.

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