L’emergenza alimentare in Burkina Faso e i nuovi ricchi

Larghe fasce della popolazione soffrono di malnutrizione, mentre la nuova borghesia ostenta gli status symbol del potere

Gigi Pietra e Marina Martinetto

Davanti all’ufficio di MMI, si erge un Diospyros mespiliformis, gaaka in lingua locale, un albero selvatico che produce piccoli frutti commestibili. Su quest’albero, durante la stagione dei frutti, si sono arrampicati almeno cento bambini. Timidi, silenziosi,vengono a gruppetti, indicano «gaaka» e chiedono educatamente il permesso di salire sull’albero.
Sono ragazzini in caccia della frutta fresca assente dall’alimentazione familiare. Il pasto quotidiano è costituito da polenta di miglio accompagnata da una salsa di foglie. È tutto. Sempre o quasi sempre.

Niente frutta o verdura fresca, niente carne, niente pesce, niente latticini. «Se mangi solo il piatto familiare – afferma un infermiere – sei morto». L’altra attività dei bambini è, infatti, la ricerca di proteine animali. Topi, lucertole, uccellini vengono catturati, arrostiti e mangiati. In qualche modo, i ragazzini riescono a completare la scarsa alimentazione. Ma i più piccoli?
Secondo le statistiche nazionali, oltre il 90% dei bambini di età compresa tra 6 mesi e 5 anni è anemico, il 50% carente di anche iodio e circa uno su tre in ritardo di crescita. Uno scandalo. Ma in Burkina è normale. I dati sono relativamente migliorati nel corso degli anni. Un tempo, parlare delle conseguenze della malnutrizione sullo sviluppo fisico e intellettuale non era politically correct perché considerato razzista. Sulla nutrizione non s’interveniva perché gli economisti spiegavano come fosse inutile: solo la crescita economica avrebbe sconfitto la povertà che la genera. La loro profezia non sembra essersi avverata: da 10, 15 anni Ouagadougou mostra effettivamente le manifestazioni di una nuova ricchezza: grandi edifici pubblici, ville di lusso, fuoristrada, SUV, ristoranti eleganti…

Un’attività generatrice di reddito molto diffusa : la donna spacca a mano il granito per farne ghiaia, che sarà venduta alle imprese di costruzioni delle città

Ma cresce il divario tra i poveri, residenti soprattutto nelle aree rurali e che continuano a sopravvivere della solita economia di sussistenza, e i ricchi, concentrati nella capitale.
I più esposti alla malnutrizione e ai suoi effetti deleteri sullo sviluppo fisico e intellettuale sono i bambini di età compresa tra i 6 e i 24 mesi. La prevalenza delle varie forme di malnutrizione inizia a crescere dai 5-6 mesi, quando l’apporto del latte materno diventa insufficiente, per scendere poi lentamente dopo i 20-24, quando il bambino è più autonomo, in grado di masticare e quindi di approfittare dei «fuori pasto» disponibili in natura.

Nella foto a sinistra le madri imparano come aggiungere i micronutrimenti alla pappa del bambino, mentre nella foto a destra una dimostrazione di cucina

Da grande, una parte di questi indispensabili fuori pasto – in particolare quelli proteici, carne, pesce, uova – se li procurerà al mercato, con i pochi soldi che riuscirà a guadagnare. Ma un bambino di 6-24 mesi dipende totalmente dalla madre, cui una serie di problemi impedisce di occuparsi bene di lui: tanto carico di lavoro, poco tempo e poche risorse.
Perché? La donna coltiva i campi dell’uomo, ma i prodotti – e i soldi, se i prodotti sono venduti – li gestisce l’uomo; la divisione tradizionale dei compiti rispetto all’alimentazione della famiglia prevede che l’uomo metta a disposizione il cereale e che dei «condimenti» se ne occupi la donna – o le donne, se la famiglia è poligama; se la donna desidera procurarsi qualcosa di più delle solite foglie, per sé e per i suoi figli, deve sviluppare un’attività generatrice di reddito, che però le porta via del tempo, sottratto alle cure necessarie ai bambini; spesso le gravidanze sono così ravvicinate che il nuovo nato sottrae al fratello maggiore le cure cui avrebbe diritto: la donna burkinabé ha in media 6 bambini, un dato che non cambia da vent’anni…

Anche i padri devono essere coinvolti nei problemi di salute e di crescita del bambino

Cosa può fare una piccola ONG in questo contesto?
In collaborazione con un’altra ONG italiana, LVIA, e con il contributo finanziario della Cooperazione italiana, abbiamo avviato, in tre dei distretti in cui operiamo, la distribuzione di micronutrimenti – vitamine e sali minerali – a tutti i bambini di età compresa tra i 6 e i 24 mesi – circa 33.000 – per sopperire alle carenze più gravi (ferro, soprattutto, ma anche iodio). Si tratta di un intervento consigliato dall’OMS e previsto dai programmi nazionali rimasto finora sulla carta, salvo una piccola sperimentazione.


I micronutrimenti sono distribuiti nei 62 centri di salute dei tre distretti alle mamme che effettuano le visite di controllo della crescita del bambino. Sono confezionati in bustine monodose che la mamma aggiunge ogni giorno alla pappa. La logistica dell’approvvigionamento e della distribuzione è relativamente semplice, il costo contenuto (circa 6 euro all’anno per bambino) e la pratica dell’aggiunta di «vitamine» alla pappa ben accetta dalle madri. Speriamo, quindi, possa diffondersi in tutto il Paese. Ovviamente, si tratta di un palliativo alle carenze del regime alimentare, ma, se permette ai bambini di crescere più sani e più forti, non è certo una prassi da rifiutare.


Ci si è poi chiesto come si possa migliorare l’alimentazione quotidiana del bambino senza pesare troppo sul tempo della madre. Sono state individuate alcune soluzioni: ad esempio, se la farina con la quale si prepara la pappa per il bambino (la «bouillie») viene tostata, si conserva meglio, quindi la madre può tostare tutta insieme la quantità necessaria per una o due settimane. Con la farina tostata, la pappa sarà non solo più gustosa, nutriente e digeribile, ma anche di cottura più rapida.
Ci siamo, poi, resi conto che molti alimenti non vengono somministrati al bambino perché si pensa che non ne abbia bisogno e che non sia in grado di mangiarli. Le 62 animatrici – una per centro di salute – da noi formate e seguite nel lavoro cercano, quindi, di trasmettere un messaggio unico: «Per crescere bene, il bambino ha bisogno di tanti cibi diversi. Tutto quello che è disponibile e che mangiano i grandi, se si può ridurre in purea, polvere o succo, va bene anche per il bambino, tranne l’alcool, il peperoncino, le spezie forti e le bevande come the e caffè».


Le dimostrazioni di cucina organizzate nei centri di salute con piccoli gruppi di mamme s’ispirano a questo concetto di base. Le animatrici insegnano come tostare e conservare le farine e come aggiungere quel poco che c’è per renderle più nutrienti: puree, succhi e polveri di frutti (karité, mango, guayava, giuggiole, gaaka…), pasta d’arachide o di sesamo, fagioli sbucciati, pesce secco ridotto in polvere… Infine, insegnano come aggiungere i micronutrimenti al cibo del bambino. Un’animatrice afferma orgogliosa: “Sono diventata la mamma di tutti i bambini del villaggio!». E’ anche un modo per aumentare la fiducia in se stesse, combattere la rassegnazione, convincersi che «io posso fare qualcosa».


Con questo, naturalmente, non si risolve il problema di fondo: le donne – come i giovani – sono forza- lavoro sfruttata (14-17 ore di lavoro al giorno, a seconda della stagione), mentre il potere decisionale rimane nelle mani dei maschi adulti e degli anziani di famiglia, e delle anziane per quanto riguarda la salute del bambino. Di rado il tema viene affrontato in modo esplicito, per evitare di «urtare le sensibilità» e d’incrinare la coesione della mitica «comunità rurale». Nei centri di salute si continua, quindi, a «sensibilizzare» le donne su scelte delle quali non sono padrone: l’alimentazione del bambino, la contraccezione… Si comincia, però, a rendersi conto che, se il papà, le nonne e le zie non sono informati e coinvolti, il miglioramento dell’alimentazione infantile resta limitato. La nostra prossima tappa è invitare le famiglie alle dimostrazioni di cucina per i bambini.

Gigi Pietra e Marina Martinetto, Medicus Mundi Italia

Rispondi