Il fenomeno del “karoshi”: morire di troppo lavoro in Giappone

Matsuri Takahashi, ventiquattrenne dipendente dell’agenzia pubblicitaria giapponese Dentsu, morì suicida nel dicembre 2015, gettandosi dal tetto del dormitorio aziendale in cui viveva. Pochi giorni fa, il 6 ottobre, la società è stata condannata a pagare una multa di 500,000 yen (poco più di 4700 euro), al termine di un processo durato due anni e iniziato proprio in seguito all’accaduto. La giustizia ha ritenuto che la morte della giovane sia stata causata dall’eccessivo carico di lavoro che le era stato assegnato. Assunta appena sette mesi prima del tragico evento, la ragazza era stata costretta a fare oltre cento ore di straordinari ogni mese. Stress e stanchezza l’avevano rapidamente fatta cadere in una profonda depressione, fino a non vedere altra via d’uscita se non il gesto più estremo. Un fatto agghiacciante, ma non isolato, in un Paese in cui lavorare fino allo sfinimento è visto come un ammirabile segno di dedizione.

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Il “karoshi”: le morti per eccesso di lavoro

“Karoshi” è il termine giapponese che identifica un fenomeno sociale tanto inquietante quanto diffuso: i decessi provocati da un numero troppo elevato di ore di lavoro. Ufficialmente ne vengono riconosciuti due tipi: le morti causate da problemi cardiovascolari per eccessivo stress e i suicidi in seguito a periodi di depressione. Il termine apparve per la prima volta nel 1987 nei rapporti del Ministero della salute, del lavoro e del welfare, quando la gravità del problema iniziò a scuotere le coscienze e a infiammare l’opinione pubblica. I primi casi, tuttavia, si erano registrati già nel dopoguerra, all’epoca del cosiddetto miracolo economico – l’incredibile sviluppo che in pochi decenni fece del Giappone una delle più prosperose economie del mondo – e andarono aumentando in maniera esponenziale. Ai dipendenti venivano richiesti ritmi lavorativi esagerati al fine di sostenere la produzione e tener testa alla concorrenza e il problema divenne cronico quando l’industrializzazione delle vicine nazioni asiatiche iniziò a rubare fette di mercato alle aziende nipponiche.

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Non è chiaro quanti lavoratori perdano la vita ogni anno per l’eccessivo lavoro. Nel 2016 è stato registrato il più alto numero di ricorsi legali per presunti casi di “karoshi”: 1456, secondo quanto reso noto dal governo. È presumibile, tuttavia, che il numero reale sia molto più alto (si parla perfino di 9000 casi all’anno) e il fenomeno pare interessare soprattutto quei settori, come la sanità e le costruzioni, che oggi soffrono di una grave carenza di manodopera. Una situazione talmente grave che il “karoshi” è ufficialmente riconosciuto, nelle statistiche demografiche nazionali, come una causa di morte, alla pari di malattie come il cancro o degli incidenti stradali.

Cento ore di straordinari al mese: la sindrome da superlavoro

Nel 2013, Miwa Sado, trentunenne report dell’emittente televisiva NHK, morì in seguito a un periodo di eccessivo lavoro. La giovane giornalista aveva dovuto sostenere quasi centosessanta ore di straordinari al mese, con soltanto due giorni di riposo, che l’hanno portata alla morte per insufficienza cardiaca. Come lei e Matsuri Takahashi, in molti hanno sofferto lo stesso destino.

 

Il Giappone non ha ratificato le convenzioni promosse dall’Organizzazione internazionale del lavoro in materia di orario lavorativo e la legislazione nazionale non pone limiti alle ore di straordinario che un lavoratore può fare. Anche quando un tetto massimo effettivamente esiste, tale restrizione è facilmente aggirabile. I genitori di Matsuri Takahashi hanno rivelato come alla giovane venisse chiesto di dichiarare un numero di ore lavorative inferiore a quelle realmente sostenute ed è possibile presumere che questa strategia sia seguita in molti contesti. Secondo il rapporto del governo sul fenomeno del “karoshi” pubblicato lo scorso anno, quasi il 25% delle aziende incluse nell’analisi fa fare ai propri dipendenti più di ottanta ore di straordinari al mese (ottanta è considerato il limite oltre il quale l’eccesso di lavoro provoca danni all’organismo). Nel 12% di esse vengono superate le cento ore mensili. E, spesso, non sono neppure retribuite.

Cambiare la cultura del lavoro per fermare la strage

In Giappone, lavorare fino allo sfinimento è considerato un gesto ammirevole, che dimostra la propria dedizione e il proprio rispetto nei confronti dell’azienda e dei superiori. Anche quando non richiesto esplicitamente, sono gli stessi dipendenti a scegliere volontariamente di trattenersi in ufficio ben oltre l’orario previsto, fino a tarda sera. Come sottolineato da Koji Morioka, professore della Kansai University, in un’intervista rilasciata al Washington Post, nell’economia nipponica le ore di straordinario  è come se fossero parte dell’orario di lavoro regolare. In molti casi “nessuno le impone, ma i lavoratori le sentono come obbligatorie”. È un fenomeno così profondamente radicato nella cultura giapponese e nella mentalità dei lavoratori che le campagne di sensibilizzazione e le iniziative intraprese per tentare di migliorare la situazione – come il cosiddetto “premium friday”, la possibilità di tornare a casa a metà pomeriggio l’ultimo venerdì di ogni mese – hanno dato scarsi risultati. Senza contare che le multe inflitte alle aziende che abusano dei propri dipendenti sono talmente irrisorie – si vedano i quattromila euro che la Dentsu è stata obbligata a pagare per la morte di Matsuri Takahashi – che il loro potere deterrente è praticamente nullo.

Il primo ministro nipponico Shinzo Abe si è dichiarato pronto a promuovere riforme della legislazione sul lavoro per porre un limite al numero di ore di straordinario, ma una modifica in tal senso, da sola, non basta. Saranno necessari controlli più estensivi per accertarsi che le aziende effettivamente adempiano ai loro obblighi e rispettino il benessere psicofisico dei dipendenti, ma sarà anche importante un’azione più profonda, dal basso, volta a sradicare la parte malsana di una cultura dell’eccesso che da oltre mezzo secolo miete vittime nell’intero Paese del sol levante.

 

Alessia Biondi

Nata a Parma nel 1994 e residente a Vicenza, attualmente studio Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani all’Università di Padova e collaboro con SocialNews come parte di un progetto inerente al mio programma di studi. Da sempre appassionata di scrittura, lingue e viaggi ho tenuto per diversi anni un mio blog personale su questi temi. Mi interesso di diritti umani, storia e attualità e coltivo una grande passione per l’Estremo Oriente e le sue culture. 

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