CEC e APAC, il carcere alternativo è possibile e funziona

Venerdì 15 settembre, a Vasto, in provincia di Chieti, la Comunità Papa Giovanni XXIII ha festeggiato l’apertura di un centro di accoglienza per detenuti, allestito all’interno di una struttura concessa in comodato gratuito dall’Arcidiocesi di Chieti-Vasto. L’istituto ospita un programma di detenzione alternativa al carcere, promosso dall’associazione fondata da Don Oreste Benzi nel 1968 e figlio del progetto CEC (Comunità Educante con i Carcerati). Ospiti del centro saranno una ventina di detenuti “comuni” che avranno la possibilità di espiare le rispettive pene in maniera differente dalla consueta carcerazione. Il tutto grazie al lavoro di circa 15 persone, tra volontari e operatori, che aiuteranno i recuperandi nella strada verso la rieducazione e il successivo reinserimento sociale.

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Rieducare alla vita, il progetto CEC


Quella di Vasto è solo l’ultima delle case di accoglienza aperte dalla Comunità Papa Giovanni XXIII: l’impegno dell’associazione nell’universo carcerario va avanti dai primi anni ‘90 e la prima CEC è nata a Rimini, nel 2004. Ad oggi esistono sei Comunità Educanti con i Carcerati e il loro obiettivo primario è quello di rieducare i detenuti in un ambiente familiare e propositivo per prepararli al rientro nella società. A ispirare la loro nascita sono state infatti le parole di Don Oreste Benzi, che ripeteva: “Dobbiamo passare dalla certezza della pena, alla certezza del recupero. Perchè una persona recuperata, rieducata alla vita, non è più pericolosa”.

Il programma è rivolto esclusivamente a detenuti “comuni” non tossicodipendenti (per i quali sono invece già attive specifiche comunità terapeutiche). Per potervi accedere, agli imputati in attesa di giudizio devono essere riconosciuti gli arresti domiciliari mentre i condannati in via definitiva devono poter usufruire di misure alternative al carcere (per esempio l’affidamento in prova al servizio sociale). Al fine rieducativo, il percorso è progressivo e prevede tre fasi che possono variare nella durata a seconda della tipologia del reato, della persona e dei suoi miglioramenti durante la permanenza all’interno del centro. Il criterio di valutazione della condotta dei detenuti si basa sulla valorizzazione del merito, considerando lo svolgimento delle mansioni quotidianamente affidategli. La fase iniziale vuole essere uno stimolo alla riflessione personale del detenuto, e vengono dunque alternati momenti di formazione umana e valoriale, e momenti di lavoro-terapia. La fase successiva è quella della professionalizzazione: piccoli laboratori prendono il posto del lavoro creativo-terapeutico e c’è la possibilità, per i detenuti, di svolgere ulteriori tirocini formativi. L’ultimo step è quello dell’effettivo inserimento nel mondo del lavoro con la parallela riduzione dei momenti educativi. Con il progredire delle fasi il recuperando acquista sempre più indipendenza, nei rapporti con i familiari e nel portare a termine i propri compiti. Fondamentali per la riuscita del percorso sono anche il coinvolgimento della società civile e della famiglia del detenuto, nonché l’aiuto reciproco tra recuperandi.

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“Dall’amore nessuno fugge”, l’esperienza delle APAC


Il percorso intrapreso dalla Comunità Papa Giovanni XXIII trova le sue radici, sostanzialmente, nell’incontro tra alcuni membri dell’associazione e la realtà brasiliana dell’APAC (Associazione per la Protezione e l’Assistenza dei Condannati), avvenuto nel 2008 nel penitenziario di Itauna (Minas Gerais).
L’APAC nasce prima, nel 1974, su iniziativa di un gruppo di volontari attivi nel carcere di São José dos Campos (San Paolo) guidati dal giurista italo-brasiliano Mario Ottoboni, con l’idea di mettere a disposizione delle strutture dove fosse possibile mitigare la privazione della libertà dei carcerati, umanizzandone le pene.

Il metodo di detenzione nelle APAC, ancora meno restrittivo, prevede che siano gli stessi detenuti ad amministrare i centri di accoglienza. Provvisti delle chiavi della prigione e in assenza di guardie essi autogestiscono le stesse strutture nelle quali scontano la pena. Responsabilizzazione, autodisciplina e fiducia sono quindi componenti fondamentali per la vita comune all’interno dei centri. Attualmente nel mondo sono presenti 147 fondazioni APAC, 50 delle quali nel solo Brasile dove i tribunali di 17 stati federati su 26 riconoscono e utilizzano le misure di pena alternative in esse vigenti. La Fondazione AVSI (Associazione Volontari per il Servizio Internazionale) si è fatta promotrice di questo modello, per esportarlo al di fuori dei confini sudamericani, attraverso la mostra fotografica “Dall’amore nessuno fugge. L’esperienza delle APAC in Brasile” che è stata ospitata, tra l’altro, dalla stessa CEC di Vasto.

I risultati dei due progetti parlano chiaro. In questo senso, confrontando il tasso di recidiva degli ex-detenuti nelle CEC e nelle APAC con le rispettive medie nazionali otteniamo un quadro alquanto significativo. Per quanto riguarda le prime, rispetto alla media italiana, il tasso scende dal 70% ad appena l’8%. Le seconde invece, come evidenziato da un rapporto del Tribunale di Giustizia dello Stato del Minas Gerais, mostrano un livello di recidiva del 15% sensibilmente inferiore alla media brasiliana dell’80%, oltre che brillanti risultati di ordine e disciplina all’interno dei centri. Nell’arco di quarant’anni, infatti, non c’è mai stata una rivolta e i tentativi di fuga si contano sulle dita di una mano, a fronte degli oltre tremila detenuti presenti. D’altronde, come ha spiegato il coordinatore del progetto Antonio Ferreira: “La richiesta volontaria di trasferimento da parte del detenuto è il primo criterio per entrare in APAC”. Anche i costi diminuiscono. Secondo Giorgio Pieri, responsabile del ‘Servizio Carcere’ di APG23, se il progetto CEC, quasi totalmente autofinanziato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, venisse esteso a livello nazionale il risparmio effettivo per le casse dello Stato sarebbe pari a 500 milioni di euro annui. Relativamente alle APAC, invece, i costi pro capite per il mantenimento di un recuperando equivalgono alla metà di quanto speso, abitualmente, dallo Stato brasiliano. La riduzione dei costi, in entrambi i casi, trova spiegazione nell’inferiore rapporto numerico tra personale carcerario e detenuti come, altresì, nel contributo positivo del lavoro individuale di questi ultimi.

Misure di pena alternative, a che punto è l’Italia?


In Italia, la questione dell’alternativa al carcere è più che mai attuale. Il 30 novembre 2016, con un videomessaggio in occasione della proiezione del film “Robinù” nel carcere di Poggioreale, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato la necessità di perseguire la prescrizione costituzionale della rieducazione del condannato “moltiplicando le occasioni per la formazione, per il reinserimento sociale, sviluppando un sistema di pene alternative”. Il capo dello Stato ha anche parlato di “sconfitta dello Stato” che si palesa “quando a varcare le porte del carcere è un giovane proveniente da un contesto sociale difficile”.

Ma a che punto si trova lo stato di applicazione delle misure alternative al carcere in Italia? Secondo l’ultimo rapporto Istat (2015) sulla condizione dei detenuti nelle carceri italiane, l’elevato tasso di sovraffollamento trova ragione, oltre che nella consistente quota di carcerati in attesa di giudizio, nello scarso utilizzo delle misure di detenzione alternative. Quest’ultime però, come sottolineano lo stesso documento nonché un’approfondita ricerca di Openpolis, sono aumentate grazie all’azione del legislatore che tra il 2010 e il 2014 è intervenuto al fine di ridurre il soprannumero dei detenuti. Ciononostante, facendo riferimento alle ultime statistiche del Ministero della Giustizia, i carcerati che beneficiano di tali misure sono solo il 45% – un livello inferiore a quello dei principali paesi europei. Infatti, come mostra l’annuale rapporto Space II del Consiglio d’Europa, in Italia il numero di soggetti in misura alternativa per 100.000 abitanti è pari a 87.4, a dispetto di una media europea di 195. Guardando al futuro, pertanto, la sfida sarebbe quella di continuare a moltiplicare le possibilità di alternativa al carcere, cercando di tendere a soluzioni che garantiscano la rieducazione dei recuperandi, secondo le logiche di giustizia riparativa che progetti come CEC e APAC continuano a portare avanti – con grandi risultati.

 

Simone Delicati

Simone Delicati, nato a Sanremo il 2 settembre del 1996, maturità scientifica, attualmente studente al secondo anno del corso di laurea in ‘Scienze politiche, relazioni internazionali, diritti umani’ presso l’Università di Padova, trascorrerà il terzo anno in Erasmus a Reading. Aspirante giornalista, coltiva questa sua passione su Social News. Appassionato di cinema italiano, nutre un interesse particolare per il tema delle migrazioni (circa il quale sta scrivendo il lavoro di tesi). Ex judoka, gioca a calcio ogni volta che può. Crede nei diritti umani come gli unici strumenti possibili per garantire - a chiunque - una vita dignitosa. Spera nei diritti umani come seme per le pari-opportunità. 

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