“Hands up. Don’t shoot”: morire per il colore della pelle

Il racial profiling è una pratica che nasce negli Stati Uniti e consiste nella propensione, da parte delle autorità, ad arrestare qualcuno che è sospettato di un crimine, sulla base del colore della pelle, della religione, dell’etnia. Si tratta di una vera e propria abitudine che, in realtà, sembra non essere mai andata via, a dispetto dei principi sanciti dal diritto internazionale dei diritti umani. Una brutta macchina del tempo che continua a riproporre la stessa ingiustizia. Lo dimostrano i numerosissimi casi di cronaca che hanno un iter ben preciso: un poliziotto bianco arresta o, nei casi peggiori, uccide un uomo di colore sospettato di crimini di diversa natura. Si tratta di un sospetto, in totale assenza di prove, contro i principi della Costituzione. Si va dal possesso di arma da fuoco, alla minaccia di possederla, fino al sospetto di una rapina avvenuta a chilometri di distanza, ma l’epilogo è sempre lo stesso.

 

Ci sono tantissime storie di uomini di colore fermati dalla polizia locale per via del colore della pelle. Storie che raccontano la violenza ingiustificata delle autorità che, senza nessuna legittimazione, hanno umiliato uomini e donne persino quando era il caso di difenderli. È accaduto a Nicole Thomas , 34 anni, quando, nel 2001, ha subìto una rapina in California minacciata da una pistola mentre si trovava in macchina nel parcheggio vicino casa. Ha immediatamente avvertito il suo ragazzo e la polizia quando i rapinatori sono andati via, ma la polizia non ha preso le sue difese. Anzi, l’ha accusata di mentire e di esagerare nel suo racconto, inveendo contro il suo ragazzo. Così, per paura di ritorsioni, ha lasciato perdere e ha rinunciato alla denuncia. È accaduto a Philando Castile, afroamericano di 32 anni ucciso lo scorso luglio nel Minnesota da un agente di polizia, senza alcun motivo. Era in auto con la sua fidanzata che ha filmato la scena con il cellulare, non essendosi resa conto subito che Philando era morto. Si trattava di un semplice posto di blocco, Philando Castile stava prendendo i suoi documenti e il portafoglio, mentre spiegava al poliziotto che era in possesso di un’arma e del regolare porto d’armi. Il poliziotto non gli ha permesso di prendere i suoi documenti e gli ha sparato, uccidendolo. Per fortuna in questo caso sarà fatta giustizia perché il poliziotto in questione, Jeronimo Yanez, è stato accusato di omicidio colposo e andrà in tribunale. Ma in tantissimi altri episodi la giustizia non ha neanche sfiorato le famiglie delle vittime. Infatti, sono rarissimi i casi in cui i poliziotti coinvolti vengono incriminati, nonostante abbiano tutti il dovere di portare una telecamera, un provvedimento preso proprio a causa di episodi violenti contro le minoranze etniche.

Hilando Castillo raciai profiling

Un fotogramma del video girato dalla fidanzata di Philando Castillo.

I fenomeni di racial profiling, purtroppo, non si registrano solo in strada. Persino a scuola, un luogo tutto sommato ritenuto sicuro, si verificano casi di razzismo. Le punizioni più severe vengono date a bambini o adolescenti di colore rispetto ai loro coetanei bianchi, per le stesse azioni. Il problema quindi è radicato così in profondità da essere diventato un istinto, un’abitudine che purtroppo non si limita agli Stati Uniti.

racial profiling stati uniti

 

In Europa, si assiste sempre più spesso ad accuse e controlli riservati a persone di colore, con una religione e un’etnia diverse. Questo accade molto più spesso dopo i recenti attacchi ad opera dello Stato Islamico, che ha alimentato una cascata d’odio, razzismo e sospetto già esistenti. Purtroppo spesso ci si scontra con i pericolosi luoghi comuni e pregiudizi che prendono forma quando la gente ha paura, quando c’è una crisi di qualunque tipo in corso. Le persone che hanno paura per la mancanza di lavoro, tenderanno ad incolpare chi vive nel quartiere dei “bianchi” e non è bianco e quindi non se lo merita perché non è il suo posto; oppure tenderanno ad incolpare chi scappa da una guerra civile in un barcone che probabilmente affonderà, perché verrà a rubargli il lavoro, la casa, il Paese. La paura genera l’odio, e l’odio genera violenza, una violenza inaudita perché intrisa di cattiveria che riguarda tutti, anche i poliziotti che dovrebbero proteggere la gente comune dagli altri e da se stessa. Senza un adeguato impegno si continuerà ad assistere ad episodi che lasciano un profondo senso di ingiustizia. In fondo c’è la convinzione che “diverso” sia sinonimo di “pericoloso”.

racial profiling stop frisk

 

Ma chi dovrebbe combattere una piaga sociale come il racial profiling? Sicuramente un ruolo importantissimo ce l’ha la politica e il modo in cui questa violenza viene interpretata da chi ha le competenze per agire su larga scala. Ad esempio, il neo Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, noto per le sue idee poco affini all’uguaglianza in generale, come affronta il fenomeno del racial profiling? E com’era affrontato invece dal suo predecessore, Barack Obama, primo Presidente nero degli Stati Uniti? Chiaramente le azioni di chi rappresenta, o dovrebbe rappresentare il Paese hanno ripercussioni su quello che succede, dal momento che le scelte politiche sono lo specchio dei cittadini. Ma potrebbe essere opinione comune che quella di costruire un muro al confine con un altro Stato non sia la migliore delle idee per alleviare e combattere una piaga sempre più dilagante. Spesso, quindi, la politica non è abbastanza.

 

Armi potenti contro il racial profiling potrebbero essere la cultura alla diversità, la consapevolezza del proprio ruolo nella società e delle proprie azioni, l’educazione e il rispetto per il prossimo. Oppure il passaparola, in questo caso fornito da un Movimento di attivisti neri, il Black Lives Matters, che chiedono chiarezza, comprensione, rispetto.

Il racial profiling è una violazione dei diritti umani, e come tale deve essere affrontata, con tutto l’impegno e la consapevolezza necessaria.

 

Luana Targia

Luana Targia nasce a Palermo nel 1993. Studia lingue, e nel 2016 si laurea in Scienze della comunicazione per i media e le istituzioni all'Università degli studi di Palermo. L'incertezza per il futuro la porta a Londra per due mesi, dove lavora come ragazza alla pari e vive la Brexit in diretta. Torna a casa consapevole che non ci rimarrà per molto, e infatti pochi mesi dopo si trasferisce a Bologna per intraprendere il percorso di laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa. Ama leggere e scrivere, è appassionata alle cause perse, ai diritti umani, alla lotta alla mafia. Probabilmente scrivere è l'unica arma che possiede. 

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