Cercare la felicità è un diritto umano?

Essere felici? Oggi è un diritto riconosciuto e addirittura tutelato dalle Nazioni Unite che, per ribadirlo concretamente, ha istituito, per il 20 marzo, già dal 2012, la Giornata internazionale della felicità.

Si riconosce l’importanza di un nuovo approccio alla crescita economica che promuova uno sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere della popolazione mondiale. Insomma, l’ONU sottolinea come il perseguimento della felicità sia un obiettivo primario per l’essere umano e si possa considerare a tutti gli effetti un diritto inalienabile, proprio di ognuno di noi, sia individualmente che collettivamente.

A ribadire il concetto l’ex Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon: “C’è bisogno di un paradigma economico che riconosca la parità tra i tre pilastri della sviluppo sostenibile. Il benessere sociale, economico ed ambientale sono indivisibili. Assieme definiscono la felicità globale complessiva”. Come si fa, però, a definire e quantificare la felicità?

Nonostante il concetto di felicità sia complesso e sia stato dibattuto in secoli di studi filosofici, si è aggiunto oggi un metodo scientifico per valutare il livello di felicità della popolazione di uno Stato. Esso si basa su 6 diversi fattori: prodotto interno lordo pro capite, aspettativa di anni vissuti in salute, sostegno sociale, fiducia, libertà percepita di prendere decisioni riguardanti la propria vita e generosità. Questi dati vengono pubblicati annualmente nel World happiness report.

L’Italia, nel 2016, risultava solo al cinquantesimo posto su 157 Stati presi in esame, con gravi problemi nei campi della corruzione percepita e nella generosità. Le statistiche aggiornate verranno pubblicate oggi, il WHR rappresenta uno strumento utile a capire quali siano i problemi e gli ostacoli principali al raggiungimento di una felicità più diffusa. Tutti gli Stati dovrebbero prendere seriamente queste statistiche e provvedere all’inclusione della felicità nella propria agenda politica.

Inaspettatamente, un Paese che bisognerebbe ergere a modello è il piccolo e quasi sconosciuto Stato del Bhutan che ha fatto della felicità il pilastro centrale della propria governance. Dal 1970, grazie a re Jigme Singye Wangchuckince, il paese ha rifiutato di considerare il PIL come unico metodo per misurare il progresso. Al posto di questo ha adottato un nuovo approccio di sviluppo che calcola la prosperità attraverso i principi del “Gross National Happiness” (GNH) e nonché tramite gli indicatori salute fisica, spirituale e sociale dei propri cittadini e dell’ambiente. Una politica, questa, che si trova certamente in controtendenza, per esempio, rispetto alle recenti prese di posizione del governo statunitense sulle questioni ambientali: uno scetticismo, sfociato in negazionismo del cambiamento climatico, che il nuovo capo della Environmental Protection Agency (Epa, l’agenzia federale per l’ambiente) non sembra voler abbandonare. Questi cambiamenti di direzione a livello internazionale rendono sempre più attuale la tematica della felicità come paradigma dello sviluppo.

Bhutan king and queen happiness felicità

I regnanti del Bhutan in una fotografia tratta da Ipezone

 

La ricerca della felicità nel diritto

Il diritto alla felicità è presente in molte Costituzioni, ma la carta più famosa in cui viene sancito è sicuramente la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America: [...] che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”. È lecito chiedersi se questo enunciato sia stato recepito nel suo senso originario. “Felicità” al tempo non si riferiva esclusivamente a uno stato emozionale soggettivo. Significava benessere nell’accezione più ampia del termine, includeva il diritto di soddisfare bisogni fisici, ma aveva anche un’importante dimensione morale e religiosa. Nella terra del consumismo, ci si è allontanati da tali contesti per prediligere l’appagamento tramite un diritto alla possessione di beni materiali. Ancora più grave è che ci si sia dimenticati della felicità pubblica ed appare evidente come questo modo di pensare abbia reso parte della popolazione sfavorevole a cure mediche gratuite per tutti e contraria all’immigrazione di persone, nel timore che tali presenza possano andare a ledere la loro personale felicità.

A parte il “caso USA”, possiamo trovare altri esempi di “felicità” nel diritto, con particolare attenzione ad un tipo di felicità collettiva. In Giappone “I diritti e i doveri del popolo” sono una caratteristica peculiare della Costituzione del dopoguerra ed è qui che troviamo, all’articolo 13, il diritto del popolo “a essere rispettato individualmente”, a essere soggetto “al benessere pubblico”, e “alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità”.

Persino durante la Rivoluzione Francese, che diede i natali alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, il concetto di felicità venne posto all’articolo 1: “Lo scopo della società è la felicità comune. Il Governo è istituito per garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti naturali e imprescrittibili”.

Posto in termini diversi, possiamo trovare il diritto alla felicità anche nel nostro ordinamento, all’articolo 3 della Costituzione in cui viene garantito “il pieno sviluppo della persona umana”. Così lo Stato garantisce l’uguaglianza sostanziale garantendo ad ognuno pari opportunità per realizzarsi pienamente e liberamente. In questi termini, è dovere dello Stato garantire la felicità.

Si fa sentire, sfortunatamente, la mancanza di un approccio globale al problema che comprenda, oltre ad una tutela della felicità individuale, anche quella collettiva. Eppure in Italia possiamo dire di vantare una lunga tradizione in proposito. Gli economisti e i filosofi italiani del Settecento (Antonio Genovesi, Giacinto Dragonetti, Pietro Verri e molti altri), riferendosi alla tradizione romana e medievale della felicità pubblica e del bene comune, posero la felicità, in particolare quella pubblica, al centro della loro riflessione economica e civile. A Roma la felicitas rimandava alla generatività della vita e alla coltivazione delle virtù. Felicità, quindi, come fioritura umana.

Gli Stati che garantiscono esplicitamente il diritto alla felicità non sono molti. La tematica ha, come abbiamo visto, origini antiche e solo recentemente la si è rivalutata creando nuove prospettive sia in ambito economico che giuridico.

felicità

Felicità individuale e felicità collettiva

Quando si pensa al concetto di felicità, lo si associa sempre a uno stato personale, a una ricerca individuale, quasi egoistica. Ci si riferisce a delle aspirazioni intime della persona, al raggiungimento di uno stato di appagamento di tutti i propri desideri. Non ci si sofferma mai a pensare ad una felicità collettiva intesa come benessere di tutti. Eppure appare evidente come anche il singolo tragga beneficio da uno stato di felicità generale. Con felicità non si vuole porre l’accento su una condizione economica agiata ma piuttosto sulla ricchezza di beni relazionali. Come sosteneva già Aristotele: “…è chiaro che non è la ricchezza il bene da noi cercato: essa infatti ha valore solo in quanto “utile”, cioè in funzione di qualcos’altro”. Non si vuole fare retorica sul concetto che i soldi non facciano la felicità, ma questo è vero solo in parte. Come ha dimostrato Easterlin con il suo paradosso, quando aumenta il reddito, e quindi il benessere economico, la felicità umana aumenta fino a un certo punto, ma poi comincia a diminuire, seguendo una curva a U rovesciata. In qualche modo tende a stabilizzarsi e non ad aumentare all’infinito.

 

Il diritto alla ricerca della felicità è, quindi, un diritto umano. Nonostante non sia affermato esplicitamente nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, esso sottende agli altri ed è la sintesi dei più importanti come il diritto alla vita, alla libertà di pensiero, coscienza e religione, e come il diritto alla libertà di espressione. È anche molto più di questo: è la tutela dell’essere umano e dell’ambiente. Racchiude una spinta personale all’autorealizzazione e una spinta collettiva alla ricerca di un benessere generale.

L’ONU esorta così tutti noi a farci carico della nostra felicità e di quella degli altri tramite piccoli gesti quotidiani. La felicità non si limita quindi a restare solo un diritto, ma diventa anche un dovere. L’importanza di puntare ad uno sviluppo sostenibile e alla tutela dell’ambiente viene posta in primo piano, è un nostro imperativo morale rendere il pianeta un posto più felice, anche per le generazioni future. I modi per farlo sono molteplici e semplici, si può persino migliorare il mondo seduti comodamente sul nostro divano di casa. Perciò non limitiamoci a scrivere qualche citazione su Facebook o a pubblicare qualche smile, ma agiamo: basta davvero poco per essere più felici.

 

Giada Stevanato

 

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