Le due facce del Brasile

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Si è appena conclusa la splendida cerimonia di apertura dell’Olimpiade di Rio, fortemente voluta per rilanciare un Brasile a rischio di bancarotta. Dopo 120 anni, il mondo dei cinque cerchi sbarca in Sudamerica ed il Brasile ha bisogno di scuole, ospedali, di maggiore sviluppo socioeconomico. Forse per questo la protesta è sfociata con tremila militanti dei movimenti sociali, sindacati e partiti politici che hanno costretto il Comitato organizzatore di Rio 2016 a cambiare il percorso della torcia olimpica.  “Ci opponiamo al fatto che non si dà priorità ai diritti sociali – ha spiegato un manifestante – Per questo non crediamo che le Olimpiadi possano giustificare il dirottamento di risorse destinate prima alle tematiche sociali”. Ma non solo, sono state molte le contestazioni per troppe cose necessarie all’olimpiade non terminate in tempo ma soprattutto le accuse per violazioni dei diritti umani da parte delle istituzioni. Amnesty International accusa la polizia di violenze diffuse: “uno scioccante aumento del 103% nel tasso di omicidi a opera della polizia tra aprile e giugno del 2016 che ha frantumato ogni possibilità di un’eredità positiva per i Giochi Olimpici”.

Per quanto si possa dire sul mondo dello sport, con i suoi tentacoli nell’economia, nella corruzione, nella malavita, negli illeciti come il doping, quando arrivano gli atleti nello stadio alla cerimonia di apertura tutto diventa una festa e la prima vittoria è quella di avere tutti insieme i Paesi del mondo, nella fratellanza e nella pace. L’immagine, almeno quella televisiva, di fronte al mondo ha avuto l’effetto desiderato. Senza effetti digitali e con costi contenuti, tutto realizzato con volontari umani, le geometrie sceniche hanno permesso una suggestivo racconto della storia del Sud America, dall’invasione europea con il genocidio degli indigeni, alla tratta degli schivi, per arrivare allo sfruttamento delle multinazionali, alle questioni climatiche ed ambientali fino a coinvolgere il disboscamento della foresta amazzonica ed il riscaldamento globale per colpa dell’abuso dei combustibili fossili.

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Ma non solo, lo stadio Maracanã ha accolto con un’ovazione la squadra dei rifugiati, dieci atleti fuggiti dalla guerra per dare un senso alla vita con lo sport. Dieci atleti rifugiati – sei uomini e quattro donne – si cimenteranno nel nuoto, nel judo, nella corsa. La loro bandiera è bianca con i cinque cerchi olimpici per testimoniare che sono stati adottati dal mondo. Nella tribuna in piedi anche il segretario generale dell’Onu, Ban Ki Moon. E per questo team fa il tifo anche papa Francesco, che in una lettera ha scritto: “Che il coraggio e la forza che portate dentro possano esprimere attraverso i giochi olimpici, un grido di fratellanza e di pace. Che, tramite voi tutti, l’umanità comprenda che la pace è possibile, che con la pace tutto si può guadagnare; invece con la guerra tutto si può perdere. Prego per voi e per favore vi chiedo di pregare per me. Che dio vi benedica”. Firmato: “fraternamente, Francesco”.

E per concludere il presidente del Cio ha toccato temi quali il rispetto, l’uguaglianza e ha introdotto il lavoro e la passione di Kip Keino. Il campione olimpico nell’atletica a Città del Messico ’68, che, commosso, ha ricevuto l’onorificenza dell’alloro olimpico per il suo impegno in Kenia dove molti ragazzini possono sperare in una vita migliore grazie all’educazione e allo sport permesso dalla sua fondazione.

Queste Olimpiadi possono essere un’occasione – fragile ma reale – di gioire e piangere, ricchi e poveri, migranti o no, tutti insieme. Un esempio ancora utopico di come il mondo dovrebbe essere, di come le competizioni e le aspettative e gratificazioni di ognuno non debbano prevaricare e togliere la dignità di vivere di altri.

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