Terrorismo e nuova guerra ibrida

Oggi i conflitti non sono più confinati su un territorio geografico, si estendono con microazioni interconnesse che li esportano ovunque. Gli attori non sono solo gli uomini in uniforme, ma anche gruppi associati agli estremismi e dalla criminalità organizzata

Marco Lombardi

daeshIl terrorismo di questi decenni è rappresentato da Daesh (al-Dawlah al-Islamiyya fial-Iraq wa-al-Sham). Si tratta di una minaccia rilevante già da prima della proclamazione del Califfato, il 29 giugno 2014. Tutto era scritto nel piano di espansione di al-Qaeda ritrovato in documenti datati fine anni ’90 e firmati da Osama Bin Laden e Ayaman al-Zawahiri. Il progetto di penetrazione dell’islamismo radicale è scandito per i successivi cinquant’anni, con tappe che riecheggiano nei tempi sia la proclamazione del Califfato, sia gli attentati degli ultimi anni.
Si tratta di un lungo filo rosso che comincia il 9 settembre 2001, quando viene ammazzato Ahmad Shah Massoud, il Leone del Panshir, comandante dell’Alleanza del Nord che combatteva i Talebani. Quella data (non il “Nine Eleven” di due giorni dopo!) segna l’avvio di quella che sarebbe diventata la guerra ibrida degli anni a seguire. Massoud viene ucciso durante un’intervista condotta da due falsi giornalisti. Uno di essi si immola con un ordigno posto nella telecamera. L’attentatore suicida viene identificato in Abedessatar Dahman, Tunisino, immigrato in Belgio, legato all’islamismo marocchino. Successivamente, la Corte belga identifica una rete di 13 complici che avevano fornito assistenza e documenti ai falsi giornalisti. Un altro terrorista viene identificato in Adel Tebourski, Tunisino anch’egli, espulso nel 2006 dalla Francia per il supporto fornito all’attentato.
Continuando nell’esplorazione, si scopre un’articolata rete, soprattutto familiare, che lega col filo rosso del terrorismo l’attentato a Massoud con il Salah di Parigi e Bruxelles. Dunque, ciò che nel corso del 2015 e del 2016 si manifesta con ‘sorpresa’ negli attacchi di Parigi e Bruxelles era già scritto nella storia degli ultimi 15 anni, caratterizzati da un costante sviluppo della radicalizzazione con finalità di terrorismo nel cuore dell’Europa, soprattutto in quel Belgio incubatore dell’estremismo violento.

Se, dunque, molti degli eventi di questi anni erano già scritti, tante, tuttavia, sono le novità. Quella che distingue Daesh risiede nella possibilità di controllare un territorio in una forma organizzata para-statale, proponendosi come attore centrale nel contesto ampio di riferimento della cosiddetta “guerra ibrida”. Oggi la guerra non è più confinata su un territorio geografico, si estende con micro azioni interconnesse che la esportano ovunque, i cui attori non sono solo gli uomini in uniforme, ma anche gruppi associati al terrorismo ed alla criminalità organizzata. Per ragioni politiche, questo concetto “invasivo” di guerra ibrida non è stato accettato: la politica che non governa non vuole accettare il fenomeno, trovandosi impreparata ad affrontarlo per la reale minaccia che comporta.
Ne consegue un’enorme vulnerabilità nella risposta che determina il perpetrarsi delle minacce che si stanno subendo. Daesh non è forte, ma è capace di sfruttare al meglio le vulnerabilità dei suoi avversari.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo messaggio (19 agosto 2015) al 36° Meeting di Rimini che si apre con un importante incontro sulle religioni, dichiara: “Dalla capacità di dialogo, di comprensione reciproca, di collaborazione tra le religioni monoteiste dipenderà la pace nel mondo. Di questo dobbiamo essere consapevoli. Il terrorismo, alimentato anche da fanatiche distorsioni della fede in Dio, sta cercando di introdurre nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Africa, i germi di una terza guerra mondiale. […] L’umanità che mostreremo nell’accogliere i profughi disperati, l’intelligenza con cui affronteremo i fenomeni migratori, la fermezza con cui combatteremo i trafficanti di esseri umani saranno il modo con il quale mostreremo al mondo la qualità della vita democratica.”
In queste poche righe, il primo riferimento significativo è alla “terza guerra mondiale” introdotta dal terrorismo. Un anno prima (18 agosto 2014), Papa Francesco, nel volo di rientro dalla Corea del Sud, dichiarava: «Siamo entrati nella terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli» denunciando, poi, l’efferatezza delle guerre non convenzionali, elevatesi ad «un livello di crudeltà spaventosa» di cui spesso sono vittime civili inermi, donne e bambini e in cui «la tortura è diventata un mezzo quasi ordinario». Il tema della terza guerra mondiale a pezzi è stato ripreso più volte da Papa Francesco e, infine, legittimato dal Presidente Mattarella.
Alcuni analisti usavano già questo termine, ma la politica se ne teneva, e se ne tiene ancora, alla larga per le implicazioni che sottende. In ogni caso, i due austeri e pacati personaggi appena citati sembrano comprendere meglio di altri il nuovo teatro geopolitico caratterizzato dalla guerra ibrida: una pluralità di teatri di conflitto in cui attori differenti (eserciti convenzionali, terroristi, criminalità organizzata, Ngo, media, ecc.) mantengono relazioni conflittuali senza condividere alcun sistema di norme regolative. In parole povere, una nuova forma di guerra diffusa, pervasiva e delocalizzata, di cui né l’inizio, né la fine sono dichiarati e in cui tutte le armi sono possibilmente impiegate, da compagini con o senza uniforme, della quale il terrorismo è attore importante.
Il modo più semplice per rappresentarsi il nuovo conflitto ibrido è quello di immaginare la discesa sul medesimo campo di gioco di una squadra che gioca a calcio, un’altra che gioca a rugby, una terza a pallamano (e via di seguito), con un arbitro convinto di dirigere un incontro di tennis (in genere, nel ruolo dell’arbitro, le Nazioni Unite). Tutti giocano con regole e obiettivi propri e, certamente, tutti si faranno male. Si tratta della nuova modalità di conflitto del mondo globalizzato, in cui anche le guerre locali sono reciprocamente in ordine di interdipendenza e potenzialmente coerenti con un singolo progetto strategico. Questa forma di conflitto sembra essere presente e attualizzata nel percorso di espansione di Daesh con molta maggiore consapevolezza di quanto esprimano le risposte poco coese delle diverse alleanze che lo combattono.

Di più. È nel contesto appena descritto che si realizza la terza guerra mondiale, in corso quale risultato del sistema di interdipendenze proprio del mondo globale. Ma pochi ne vogliono essere consapevoli.
Si tratta di una nuova forma di guerra, generata dalla medesima logica della globalizzazione che abbiamo competentemente incorporato nella densa rete di relazioni con la quale interpretiamo il sistema della comunicazione, dell’economia e della politica, ma che non abbiamo ancora accettato per i medesimi effetti esercitati nella rimodellizzazione dei conflitti.
La globalizzazione è caratterizzata da un denso sistema di relazioni che trasmette gli effetti di un’azione su un singolo nodo a tutti i nodi di una grande rete. Ne è esempio la volatilità delle borse finanziarie e lo sviluppo della crisi economica, così come la condivisione dei medesimi format televisivi e gli effetti dell’informazione globale.
È ormai condiviso dal senso comune che quanto accade a Londra e New York, Shanghai e Il Cairo influisce anche sulla mia spesa al supermercato. Tale consapevolezza è diffusa e fa parte della quotidianità. Al contrario, tanta consapevolezza dei sistemi interdipendenti e degli “effetti domino” sembra, di proposito, non voler essere applicata ai conflitti in corso, che si contano a decine dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, con un rapporto di vittime elevatissimo tra i civili rispetto ai combattenti.

La novità del presente non è riconducibile alla numerosità dei conflitti, sempre elevata, ma al carattere di interdipendenza e interconnessione assunto tra di loro dai diversi conflitti proprio grazie alla definizione di guerra ibrida. Basti pensare alla forte relazione esistente tra il terrorismo di Daesh e i cartelli della droga americani, tra i differenti gruppi della criminalità organizzata, tra Stati che dispongono di eserciti regolari e i gruppi terroristici. La pluralità degli attori in campo nella guerra ibrida nel contesto delle interdipendenze globali ha messo in relazione efficace (anche strategica) tra loro i conflitti delocalizzati per il mondo, realizzando quella terza guerra mondiale “combattuta a pezzi” citata da Papa Francesco.
Il mondo cosiddetto occidentale non ha riconosciuto questo logico effetto della globalizzazione sui conflitti. Non dispone, pertanto, della cultura (tattiche e strategie) per affrontare la guerra ibrida, al contrario di molti altri attori, quali il terrorismo e la criminalità organizzata, abili a sfruttare le occasioni offerte dal nuovo contesto.

Il disegno espansivo di Daesh bene si colloca nel contesto della guerra ibrida, focalizzato com’è sull’esportazione del modello statuale dello Stato Islamico attraverso una serie di strumenti che rimandano alla costituzione di alleanze con formazioni jihadiste già localmente presenti, alla relazione sinergica con la criminalità organizzata, fonte di guadagno e opportunità logistica, all’attrazione di combattenti e di famiglie per popolare le aree di penetrazione. A questi strumenti si affianca un uso molto efficace del soft power, le strategie comunicative, l’asset strategico fondamentale in questi nuovi conflitti.
Daesh ha interpretato bene il cambiamento e il primo risultato di questa sua capacità è quello di aver trovato impreparati, sul piano culturale e normativo, i Paesi che lo combattono. La cultura politica, innanzitutto, ma anche quella investigativa e militare erano ferme ai modelli del passato per semplice utilità funzionale alla propria sopravvivenza istituzionale. Le norme che permettevano il contrasto al terrorismo non erano capaci di affrontare i nuovi fenomeni relativi alla diffusione ed alla penetrazione di internet o quelli del reclutamento e dell’auto-reclutamento o, ancora, delle nuove forme di combattimento deregolamentato.
In questo contesto, il rischio del terrorismo islamista è certamente in aumento nel corso del 2016 e richiama l’Europa a sviluppare delle concrete azioni di risposta su due timeline differenti. Nel breve periodo è necessario ridurre e contenere la minaccia con azioni di intelligence e di repressione, di polizia e militari. Nel lungo vanno eliminate le motivazioni che spingono ad abbracciare la causa del terrorismo, indipendentemente dalle “buone” ragioni addotte ed intraprendendo azioni capaci di rigenerare la fiducia nel futuro delle nuove generazioni. Entrambe le politiche, a breve e a lungo termine, sono necessarie e si intersecano.
Realizzare esclusivamente la prima linea politica e di azione significa protrarre il conflitto a tempo indeterminato, nella costante ricerca di una barriera difensiva che, inevitabilmente, sarà perforata. D’altra parte, la seconda politica non è realizzabile senza il presupposto di stabilità promosso dalla prima. Purtroppo, ci troviamo in un’Europa che non si è ancora resa conto che o combatte unita o perisce frammentata.

Marco Lombardi, Professore associato presso l’Università Cattolica di Milano, membro di ITSTIME, Centro di ricerca su terrorismo e sicurezza del Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica

 

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