Biografilm festival: il fotoreporter Jason Howe si racconta in Hoka Hey (a good day to die)

Hoka Hey (a good day to die), in concorso al Biografilm festival, racchiude il repertorio di immagini del fotoreporter Jason Howe, ma anche una serie di domande senza risposte sulle finalità di un mestiere che non ha più l’aurea di romanticismo del passato ma si è spinto verso la spettacolarizzazione della vita e della morte. Inizia con questo documentario la nostra rassegna dedicata al Biografilm Festival.

Di Maria Grazia Sanna

Jason Howe

Credits photo: monfils pictures

Si scrive Hoka hey, si traduce cavallo pazzo: è questo il titolo scelto per il documentario del regista indipendente Harold Monfils che, in occasione del Biografilm festival, ha svelato la storia e le gesta del fotoreporter Jason Howe. Dietro questa immagine di folle e temerario, sopravvissuto ad una carriera di 12 anni in zona di guerra, c’è però anche la rappresentazione di diversi problemi avvertiti dall’intera classe dei fotoreporter, tra cui i disturbi psicologici, la mania di spettacolarizzazione e infine i diverbi col Ministero della Difesa per diffondere le foto realizzate. Ed è proprio da quest’ultimo ostacolo che scaturisce una delle domande fondamentali: abbiamo rischiato la vita di due civili (Jason Howe e il regista) perché le foto non fossero pubblicate?

Analizziamo il caso. Nel 2011, il fotoreporter Jason Howe si trova in Afghanistan e sta assistendo ad un controllo di sicurezza quando vede l’esplosione di una mina sui piedi di Pte Stephen Bainbrige: trovandosi li con la sua fotocamera, Jason non esita a immortalare quel soldato ferito. D’altronde era quello il suo obbiettivo: documentare.

Non la pensa allo stesso modo il Ministero della difesa che, a conoscenza delle circostanze dell’incidente, in un primo momento impone la censura. Per Jason Howe, ma anche per il regista che lo aveva accompagnato per la realizzazione del documentario, era come se il rischio di essere colpiti da un attacco e morire fosse una follia sensa senso, poiché gli veniva impedito di diffondere quanto era successo. Dopo alcuni anni, finalmente le foto del soldato vengono pubblicate con la promessa che Jason non sarà penalizzato in alcun modo: alla luce dei fatti però al fotoreporter viene negato il permesso di ritornare in Afghanistan per conto del Telegraph.

Si tratta di una sconfitta, non solo per Jason, che dopo aver viaggiato in Colombia, Iraq e Libano, sentiva di non poter svolgere più il suo mestiere, ma anche per l’intero mondo del giornalismo che vedeva intrappolato il suo ruolo di “guardiacani” in regole dettate da organi superiori: probabilmente il Ministero della difesa aveva paura che non ci fossero più soldati disposti ad andare in guerra, una volta venutia conoscenza dei fatti reali.

Dopo l’accaduto, Jason Howe ha per qualche tempo una vita sregolata, dominata dall’abuso di alcol e cocaina a Bangkok. Sono questi i sintomi di un disturbo post traumatico da stress, avvertito da Howe e molti altri colleghi e soldati, come reazione ai pericoli vissuti e agli eventi catastrofici e violenti cui ha assistito senza pause dal primo incarico in Iraq nel 2003. Essendo un freelance, non ha infatti diritto a delle ferie che lo aiutino a stemperare la tensione e uscire da quella realtà di conflitti.

Inoltre, si è ritrovato in alcune occasioni antecedenti la partenza a Bangkok, amareggiato per quella mancanza di compassione che certi suoi colleghi manifestavano nell’approccio alla documentazione fotografica. Era come se il destino dei fotoreporter fosse quello di diventare dei paparazzi della vita e della morte, alla ricerca di un incidente e un’esplosione che regalasse scenari nuovi da fotografare e la possibilità di ricevere un award per la storia più avvincente. E questo non era il motivo per cui Jason aveva acquistato la sua fotocamera, utilizzandola per la prima volta nella Colombia controllata dai paramilitari della Farc.

Jason era alla ricerca di qualcosa da raccontare ma che non gli facesse dimenticare il senso di umanità. Lo dimostra il suo rifiuto alla possibilità di assistere all’assassinio di un uomo da parte di un’informatrice della Farc (Manu), con cui ai tempi aveva anche una relazione ma anche la sua volontà di cambiare vita dopo l’ultimo viaggio in Afghanistan. Per questo alla fine del documentario, lo vediamo nella sua residenza in Andalusia circondato dai cani, con il solo desiderio di ritornare a stare bene e quel tatuaggio con la scritta “hoka hey” sul braccio che sarà per sempre il suo grido di battaglia.

Maria Grazia Sanna

redattrice di SocialNews

 

Maria Grazia Sanna

Nata a Sassari il 14/08/1991, attualmente studio Comunicazione pubblica e d'impresa a Bologna e scrivo per Social News cercando di trovare connubio tra teoria e pratica. Appassionata di viaggi, cultura e politiche, ricerco sempre nuovi stimoli nelle esperienze quotidiane e in quelle all'estero. Ho vissuto in Francia come tirocinante, in Belgio come studentessa Erasmus e a Londra come ragazza alla pari ma questo è solo l'inizio. 

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