Referendum 17 aprile: trivelle sì, trivelle no

Il referendum popolare è uno strumento di democrazia diretta attraverso il quale gli elettori sono chiamati ad esprimere la propria volontà rispetto ad una questione precisa. E’ abbastanza normale che in previsione del voto si formino due fronti avversari, polarizzati attorno al “Sì” o al “No” senza mediazioni. Purtroppo però questo fatto tende a generare molto rumore mediatico e poca riflessione collettiva.

Marta Zaetta

referendum17La Costituzione italiana prevede diversi tipi di referendum, quello cui saremo chiamati a votare il 17 aprile è di tipo abrogativo (art. 75) e fa riferimento alla cosiddetta questione “No Triv”.

Il contesto
L’Italia è in grado di soddisfare autonomamente circa il 10% del fabbisogno interno di idrocarburi (petrolio, gasolina, gas) demandando il rimanente 90% alle importazioni. Per poter effettuare le operazioni di esplorazione, estrazione e stoccaggio le compagnie petrolifere devono disporre di permessi e concessioni ministeriali temporanee, sia per le attività svolte sulla terraferma dette “onshore” (circa 90 permessi e 130 concessioni), che per quelle “offshore” ovvero esguite in mare (oltre 60 concessioni e più di 20 permessi). Un elenco delle coltivazioni vigenti in Italia è consultabile sul sito del Ministero dello Sviluppo Economico.
A ciascuna concessione offshore possono corrispondere più piattaforme in mare. Nelle acque italiane se ne contano 135: 79 eroganti e 56 non eroganti (di supporto o ancora non operative). 92 di queste 135 piattaforme sono ubicate entro il limite delle 12 miglia dalla costa e sono delle eccezioni a quanto previsto dalla legge. Proprio queste “eccezioni” sono oggetto del referendum del 17 aprile. E’ importante in questo scenario considerare che la maggior parte del petrolio e della gasolina prodotti in Italia derivano da attività onshore, mentre la produzione di gas naturale riguarda perloppiù l’offshore.

Il quesito referendario
La domanda che l’elettore troverà sulla scheda è la seguente:

«Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo  periodo,  del decreto  legislativo  3  aprile  2006,  n.  152,  “Norme  in  materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la  formazione  del  bilancio annuale e  pluriennale  dello  Stato  (legge  di  stabilita’  2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile  del giacimento,  nel  rispetto  degli  standard   di   sicurezza   e   di salvaguardia ambientale?»

Come precedentemente affermato, il quesito referendario riguarda le “eccezioni” alla legge (le 92 piattaforme offshore ubicate entro il limite delle 12 miglia dalla costa) e interroga il cittadino sull’abrogazione dell’articolo 6 comma 17 del Codice dell’Ambiente nella parte in cui esso prevede che le trivellazioni possano proseguire fino a quando il giacimento lo consente (rif. legge di stabilità 2016), cioè finché i giacimenti non saranno esauriti, eliminando il limite temporale della concessione che diventa senza scadenza.
Semplificando, la domanda che ogni cittadino si può porre è la seguente: “vuoi limitare la durata di queste “eccezioni” alla loro scadenza naturale evitando proroghe fino all’esaurimento del giacimento?”.

Chi vuole limitare le estrazioni e abolire la norma dovrà votare “Sì”, chi invece è d’accordo nello sfruttare i giacimenti fino al loro esaurimento dovrà votare “No”.
Chi domenica deciderà di non recarsi alle urne, scegliendo l’astensione, contribuirà alla possibilità di non raggiungere il quorum che richiede il voto del 50% + 1 degli elettori. Se ciò accadesse, anche se la maggioranza dei votanti avessero optato per il “Sì”, la norma non verrebbe abrogata conferendo automaticamente la vittoria al “No”.

Ma perché si è giunti ad indire un referendum su un tema così tecnico?
Nel luglio dello scorso anno il movimento politico Possibile sottopose alla cittadinanza otto quesiti referendari di cui due sulle trivellazioni ma non riuscì a raccogliere le firme necessarie per l’indizione del referendum (500 mila). Tuttavia, in settembre, 10 Regioni (poi ridotte a 9) presentarono sei quesiti referendari contro le trivellazioni offshore entro le 12 miglia e sul territorio.  I sei quesiti chiedevano l’abrogazione di un articolo dello “Sblocca Italia” e di cinque articoli del “Decreto Sviluppo”.
In dicembre il Governo Renzi presentò alcuni emendamenti alla legge di Stabilità che andavano incontro alle segnalazioni delle Regioni sia come risultato di una dialettica politica costruttiva che come tentativo per scongiurare i referendum proposti. Nonostante ciò alcune Regioni chiesero alla Corte Costituzionale di esprimersi sul conflitto di attribuzione dei poteri  tra Stato e Regioni per votare su altri due questi referendari esclusi, ma il ricorso venne giudicato inammisibile per questioni formali. La decisione della Corte Costituzionale non ha comunque inciso in nessuno modo sul referendum del 17 aprile.

Le ragioni del “Sì”, del “No” e dei non votanti

Dalla parte del “” troviamo schierati, ognuno con la propria campagna, il Comitato No Triv insieme con associazioni ambientaliste come per esempio Legambiente, Greenpeace, il WWF; ma anche movimenti e partiti politici come Possibile, il Movimento 5 Stelle, SEL, Sinistra Italiana, la Lega Nord, diversi sindacati di base e molti ricercatori.
Le ragioni di questo schieramento, nel corso dei mesi si sono piuttosto ridimensionate e risultano essere ad oggi principalmente imperniate sulla transazione energetica a favore della ricerca e della diffusione delle energie rinnovabili pulite rispetto alla dipendenza dai combustibili fossili in riferimento a due aspetti: l’Accordo di Parigi (che verrà firmato il prossimo 22 aprile e che riassumerà  il risultato della COP21 sui cambiamenti climatici dello scorso dicembre) e il futuro occupazionale duraturo come risultante dell’investimento in innovazione industriale e in una nuova politica energetica.

Dalla parte del “No” e/o dell’astensionismo troviamo parte del PD (che è molto diviso al suo interno), Forza Italia (anch’essa divisa), parte dei sindacati e il comitato ottimisti e razionali composto da politici, esponenti del settore energetico e cittadini. Non solo come conseguenza alla riformulazione degli stimoli proposti dai sostenitori del “Sì”, la risposta di questo schieramento si incentra sulle tempistiche entro le quali la riconversione energetica deve essere pianificata, sulla perdita di investimenti e competenze nel settore ma anche sulla “contrapposizione sterile” ad un referendum che non andava indetto.

Che fare?
A tre giorni dal referendum alcuni sondaggi prevedono una partecipazione al voto del 52% (sufficiente a raggiungere il quorum). Solo in questo caso la vittoria del “No” non sarebbe automatica ma lascerebbe spazio alla volontà degli elettori.
Comunque vada anche quest’esperienza deve far riflettere su un’esigenza essenziale: “il miglioramento dei metodi e delle condizioni del dibattito, della discussione e della persuasione” non solo da parte dei media ma anche da parte dei gruppi di pressione (associazioni, partiti, ecc.) che potrebbero migliorare i loro piani di comunicazione. Perché, come diceva John Dewey, “è [proprio] questo il problema del pubblico”.

di Marta Zaetta,

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