Nell’acquario di Facebook, intervista al Gruppo Ippolita

Dopo aver introdotto parte del lavoro pubblicato da Ippolita, che esce in questo mese con un nuovo libro edito da Jaca Book ed intitolato “Anime Elettriche”, abbiamo chiesto al collettivo di presentarsi e di approfondire con noi alcuni aspetti della loro ricerca.

Marta Zaetta

Chi è Ippolita, com’è nato e di cosa si occupa?

Ippolita nasce nel 2005 a Milano presso PergolaTribe all’interno del progetto ReLOAd RealityHaking. La scrittura collettiva è un’eredità che ci arriva dal mondo dei collettivi e dell’autogestione, così come la scelta di un nome collettivo.

Con il libro “Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo” Ippolita effettua una critica radicale di Facebook (il Social più diffuso al mondo) in continuità con uno degli obiettivi che il collettivo si prefigge, ossia “immaginare possibili strumenti di autogestione e autonomia, non calati dall’alto di una teoria liscia e perfetta, ma a partire dalle pratiche quotidiane di uso, abuso e sovversione delle tecnologie che costruiscono i nostri mondi”.
Che cosa intendete per “teoria liscia e perfetta” e perché, secondo voi, è importante immaginare strumenti che siano effettivamente in grado di garantire agli utenti condizioni di autogestione e autonomia?

Non ci piacciono le risposte complessive in generale, preferiamo risposte piccole e situate, possibilmente temporanee e “portabili” cioè capaci di adattarsi ai nuovi contesti. Aprire, smontare, decostruire, rimontare con gli stessi pezzi strumenti che fanno cose diverse, o diversamente simili, da quelle per cui erano state immaginate ci arriva dall’hacking come dal post strutturalismo.
Qualsiasi teoria liscia e perfetta prevede un’igienizzazione di tutte quelle peculiarità e differenze che costituiscono e rendono dinamici i contesti in cui ognuno di noi si situa. Fissa un (il) modello interpretativo e impone il proprio regime di verità. I supporti tecnologici sono potenzialità e nuove interpretazioni che diamo al mondo. Se attraverso la tecnologia vogliamo trovare un’interpretazione che sia in grado di ridurre in sé tutti gli altri contesti (diventando così una forma dominio), ecco che rientriamo nell’ideologia dell’illimitato e dell’iper-prestanza. Ecco dunque che abbiamo bisogno delle macchine commerciali, e più vogliamo essere iper-prestanti grazie ad esse più abbiamo bisogno delle varie forme di delega tecnologica. Le condizioni di autogestione e autonomia si creano restituendoci alla nostra finitezza (siamo organici), situandoci nei vari contesti e riconoscendo i supporti tecnologici come dei veri e propri soggetti da interpretare, criticare e conoscere.

IPPOLITA (2012). Nell'acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell'anarco-capitalismo. ed. Ledizioni, Milano. 225 p.  (foto umoristica)

IPPOLITA (2012). Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo. ed. Ledizioni, Milano. 225 p. (foto umoristica)

L’intero percorso di Ippolita assume come postulato che “l’identità sia il luogo della differenza” e il collettivo ne sottolinea l’importanza sostenendo che “l’identità è inalienabile, proprio come il potere, ed è una fortuna che sia così: è la condizione per la comunicazione, per l’evoluzione, per il cambiamento”.
Potete fornire ai nostri lettori una definizione o una descrizione di “identità” da questo punto di vista e del nesso che esiste, secondo voi, tra identità-comunicazione-evoluzione-cambiamento? Ha senso distinguere tra identità digitale (quella che esprimo in Rete) e identità analogica (quella che esprimo nelle relazioni non virtuali)? Potete spiegare inoltre in che modo, a vostro parere, Facebook contravviene a questa visione di “identità”?

Il discorso sull’identità è complesso ed è interessante notare come, mentre i movimenti queer lavorano per decostruire la fissità delle identità imposte e auto-imposte, i social network commerciali vorrebbero essere i garanti di un’identità unica perfettamente comunicabile in qualsiasi contesto (si veda a questo proposito l’ideologia della trasparenza radicale, n.d.a.). Abbiamo approfondito il tema dell’identità nel nostro prossimo volume, Anime Elettriche, che sarà edito dalla milanese Jaca Book nel mese di Aprile 2016.
L’identità può essere vista come un sistema caotico che deve sempre rimanere sul margine del caos per rimanere in vita: troppo caos o troppa immobilità lo fanno collassare. Riprendendo Prigogine, possiamo considerare noi stessi, gli altri e i vari contesti che attraversiamo come attrattori che modifichiamo e dai quali siamo modificati a nostra volta. La tecnologia è quindi da considerare come un attrattore, e l’onnipresenza dei dispositivi nella nostra quotidianità fa sì che la loro forza sia maggiore rispetto ad altri. Il nostro rapporto con macchine complesse che possono interpretare i nostri comportamenti va visto come un circuito retroattivo (feedback) in cui sono coinvolte la nostra identità analogica, le macchine che fanno da medium o da filtro, e l’identità digitale. Attraverso questo meccanismo la nostra cognizione entra nel mondo macchinico (governato dalle macchine, n.d.a.), e ciò che ci viene restituito nell’interazione con esso contribuisce a modificare la nostra identità. Il meccanismo dei “like” è un esempio efficace:

  1. postiamo qualcosa nel muro di Facebook;
  2. l’interfaccia media la comunicazione attraverso un meccanismo di ricompensa (i like) che crea delle aspettative/bisogni nella nostra vita offline;
  3. possiamo soddisfare questi bisogni solamente tornado ad agire nell’ambiente digitale-commerciale.

Gli utilizzi che si possono fare di Facebook e degli “oggetti digitali” in generale sono vari: c’è chi li usa per promuovere la propria attività, per rimanere in contatto con amici/parenti lontani, per informarsi, ecc. Tendenzialmente, anche chi è consapevole del fatto che la gratuità di questi servizi è solo apparente tende a non soffermarsi sulle implicazioni che lo scambio può produrre. “Io non ho nulla da nascondere” oppure “io non posto mai niente di personale” e ancora “se non lo uso sono fuori dal giro” sono le risposte più frequenti che si rilevano. Perché, secondo voi, per le persone generalmente è così importante mostrarsi agli altri o comunque esistere sui Social? E qual è a vostro parere il rischio concreto cui vanno incontro?

Perché le persone rispondono così… perché hanno paura, paura di mostrare il proprio “disequilibrio prometeico”, come direbbe Gunter Anders. Ma abbiamo tutti un décalage (un debole, n.d.a.) nei confronti della tecnologia, anche il più smaliziato tra gli hacker. Forse ammettere questo, parlarne insieme, sarebbe un buon inizio.
Il “nulla da nascondere” lascia intendere che nascondere qualcosa voglia dire che “abbiamo fatto qualcosa di male” (riecco il parallelismo tra profiling criminale e commerciale). Inoltre, per che quel riguarda il “non postare niente di personale” pare una contraddizione: qualsiasi azione che compiamo dice qualcosa di noi. Se poi qualcuno ha una visione d’insieme delle nostre azioni online, riuscirà comunque a costruire un nostro profilo psicologico indipendentemente dal fatto che postiamo o meno contenuti personali. I social media sono una nuova modalità espressiva, sì, e dunque non un male di per sé, ma il loro obiettivo non è comunicativo, è economico. Il problema resta legato al fatto che le modalità espressive sono ancorate all’interfaccia/ambiente in cui agiamo, che ci spingono, come abbiamo già detto, all’iperesposizione e a condotte narcisistiche e voyeuristiche. Siamo sempre di fronte allo stesso problema: se ci confrontiamo con le infinite potenzialità delle macchine e da lì facciamo derivare i nostri bisogni, ecco che delle macchine non possiamo più fare a meno.

Sempre nel vostro libro dedicato all’analisi di Facebook sostenete sarcasticamente che “le democrazie occidentali diventano sempre più democratiche perché i cittadini sono più informati, possono accedere sempre e comunque alla verità messa a loro disposizione dalle reti digitali, gestite da società private per il loro bene” . Una dura critica ai cosiddetti “conservatori cyber-utopisti” cioè a “coloro che parlano di Internet e degli strumenti di comunicazione del Web 2.0 come di missili della libertà puntati contro regimi autoritari”. D’altra parte, non si può negare che la diffusione del Web collaborativo cambi in profondità le modalità di accesso e distribuzione delle risorse informative, ridimensionando il potere dei mass media tradizionali, dando voce nuovi attori sociali e ponendo le fondamenta per una nuova modalità di formazione dell’opinione pubblica. Voi cosa ne pensate? Credete sia possibile che il cittadino medio possa usufruire di questa grande potenzialità senza dover pagare prezzi (seppur non in termini di esborso monetario) troppo alti? Se sì, a quali condizioni?

Le persone fanno esperienza della presa di parola pubblica, questo naturalmente è qualcosa, non solo di auspicabile, ma di fondante per l’idea stessa di comunità. Purtuttavia quell’esperienza è destinata a non trovare mai una dignità politica, perché come già detto l’agire dei media commerciali è strumentale, non comunicativo. Il gigantismo e il generalismo non funzionano, la presa di parola pubblica ha un effetto politico quando può radicarsi, stratificare, confrontarsi sulle proprie contraddizioni e questo può avvenire solo a partire da piccoli spazi che le persone imparino a gestire e difendere, anche tecnicamente.
Essere cittadini è un (faticoso) esercizio quotidiano. Esprimere la propria indignazione davanti ad un schermo è un agire ludico e rimane tale se poi non si traduce in pratica. Meglio un dibattito di quartiere dunque, in cui gli individui possono confrontarsi, dialogare per affrontare problemi relativi al loro contesto (la tecnologia può aiutare, pensiamo alle reti mesh). Non servono grandi potenzialità, ma fiducia reciproca: non social network, ma “trusted network” (nel senso filosofico del termine, n.d.a.)
.
La democrazia, come abbiamo scritto, non è qualcosa che si possa risolvere, come se fosse un problema, la democrazia semmai è un esperienza da fare. Finché chiederemo ai mezzi tecnici di “risolvere” problemi che non lo sono ci troveremo davanti lo stesso grandioso bug concettuale (errore logico di programmazione potenzialmente molto dannoso in quanto difficilmente rilevabile sul breve periodo, n.d.a.).

di Marta Zaetta,

Collaboratrice Social News

Rispondi