Extraeuropei ed ex Europei

La paura dei migranti frantuma l’Europa. Tornano le frontiere, si rialzano i muri. E, alla fine, ci scopriamo tutti ex Europei. Di seguito l’editoriale del direttore di Limes, tratto dal numero 6/2015 “Chi bussa alla nostra porta”

Lucio Caracciolo

1. Il migrante ci smaschera. Lo straniero che approda sulle nostre sponde rompe il ritmo della quotidianità.
È l’irregolare per eccellenza. Perciò ci costringe a riflettere sulle regole della nostra vita sociale e politica.
Ce ne spalanca gli abissi insondati, ce ne illumina gli angoli oscuri. Mette in questione tutto ciò che per noi non è questionabile. E ci espone alla più radicale delle domande: chi siamo? Pur di non rispondere a tanto dolorosa interrogazione, spesso preferiamo respingere – non solo metaforicamente – l’altro da noi.
Rimuoverlo. Almeno restringerlo in un ghetto che ce lo renda invisibile. E configgerlo in una definizione di specie – «il Marocchino», «l’Afghano», «il Somalo» – a certificare che di fronte non abbiamo una persona, con la sua storia di vita, ma una molecola di un mondo inferiore che non vogliamo conoscere. Una razza, non un individuo. Un oggetto, non un umano. Cui imponiamo una maschera, mentre lui ce la toglie.
Di fronte al migrante diventiamo stranieri a noi stessi. Soli con la nostra ipocrisia cognitiva, indifferenti a riconoscerlo e ad esserne riconosciuti, perché «straniero è colui il cui sguardo è incapace di farci provare vergogna». Sicché l’Europa, che ieri volle alzare la fiaccola della «missione civilizzatrice» colonizzando spazi e anime di quegli Africani e Asiatici i cui pronipoti ne puntano oggi le terre, sembra incapace di venire a patti con la pressione di presunti alieni in fuga dalle nostre ex colonie. Se alcune centinaia di migliaia di persone – sì, persone – mettono a soqquadro l’ordine mentale e sociale di un continente di oltre mezzo miliardo di anime (anime?), qualcosa di essenziale non funziona nella ‟culla della civiltà”. Se, poi, il 38% degli Italiani connette i migranti ai terroristi e la maggioranza assoluta (51%) ne invoca il respingimento, significa che a casa nostra siamo governati dal panico. Certo non dalla politica, che da queste paure appare ipnotizzata. Tanto da farsene dirigere. Trattare con distanza analitica un tema sconvolgente, fuggendo la retorica (con annessa industria) dell’umanitarismo e le scorciatoie securitarie che speculano sulla para dell’altro, può apparire velleitario.
Eppure, è uno sforzo che dobbiamo a noi stessi, dopo che lo straniero in fuga da molti Sud in miseria o in fiamme che affacciano sul già Mare Nostrum ci ha strappato la maschera. Perché una certezza l’abbiamo: l’ordine europeo non c’è più. Né potremo ripristinarlo. Le migrazioni in corso e, soprattutto, il nostro modo di rappresentarle, incrociando la lunga crisi economica che sembra sfociare in strutturale stagnazione e la decomposizione del quadro geopolitico e istituzionale accelerata dall’infinita tragedia greca, marcano la fine dell’idea di Europa. Non solo dell’Unione Europea come (non) attore geopolitico – su cui il lettore di Limes è informato ad nauseam – ma della coscienza di essere Europei, senza di che è vano architettare un qualsiasi progetto di casa comune. Non abbiamo retto alla prova del migrante.
Sotto la maschera che lo straniero ci ha strappato scopriamo mille identità, dalle nazionali alle locali, opportunamente inflazionate dalla paura del diverso. Tanti volti sfigurati dalla paura. Ne manca uno: l’Europeo.
Gli Extraeuropei ci svelano ex Europei.

2. Nel 1964, il settimanale tedesco Der Spiegel festeggiava in copertina Armando Rodríguez, il milionesimo Gastarbeiter, accolto nella Germania Federale con una cerimonia ufficiale a Colonia e il regalo di una motocicletta. Campione di una specie, quella del «lavoratore ospite», il cui prototipo potremmo rintracciare nel Protocollo italo-belga del 1946 che sanciva lo scambio fra migliaia di minatori in Vallonia e vagoni di locale carbone per noi. Oggi a nessun governante europeo salterebbe in mente di celebrare un immigrato straniero. Perché è venuto da tempo al pettine il nodo che non sciogliemmo negli anni ‘50 e ‘60, quando in Europa le campagne si svuotavano e milioni di braccianti andavano ad alimentare industrie e servizi della ricostruzione, nel clima inebriante del miracolo economico. Quel dilemma posto con icastica sintesi dallo scrittore zurighese Max Frisch appena un anno dopo le celebrazioni per Rodríguez: «Cercavamo braccia, sono arrivati uomini».
Frisch squadernava così l’irriducibile contrasto tra capitalismo e Nazione. Tra il più o meno libero flusso dei capitali e delle persone e la necessità degli Stati di identificarsi con una comunità di popolo, dotata di un proprio limes. Un recinto nel quale distinguere, convivendo, i nostri dagli alieni. So che nel secondo dopoguerra in Europa gli alieni eravamo noi: Portoghesi, Italiani, Greci, Spagnoli.
Se all’ingresso di un ristorante svizzero o tedesco ci si poteva imbattere in divieti «ai cani e agli Italiani» – gli Inglesi ai quadrupedi avrebbero sommato gli Irlandesi – oggi lo stesso spirito e, talvolta, le stesse parole investono gli extracomunitari che, ad occhi xenofobi, o semplicemente impauriti, turbano il panorama umano delle nostre città. Stando agli etologi, che postulano l’origine genetica dell’imperativo territoriale, il conflitto fra uomini di dentro e forestieri è inestirpabile, immune dalla storia e dall’ambiente.
Sicché stabiliscono, con Robert Ardrey, che «l’uomo è animale territoriale quanto un tordo ripetitore che canta in una chiara notte californiana». E «quando ognuno di noi difende con tenacia l’appartenenza alla sua terra o la sovranità del proprio Paese lo fa per motivi non meno innati (…) delle più basse specie di animali».
Eccesso di determinismo, probabilmente. Resta il dramma del migrante, che subisce e incarna nella propria persona il conflitto fra le necessità dei ricchi Paesi europei – nei quali è chiamato a riempire i vuoti prodotti dalla declinante demografia e dall’indisponibilità dei cittadini «di ceppo» a svolgere mansioni faticose, pericolose, sporche – e le loro pulsioni razziste. Il termine «razzismo» può infastidire. Sicché tendiamo a circumnavigarlo consapevolmente, surrogando con il meno impegnativo «xenofobia», o inconsapevolmente, discettando di «multiculturalismo» (in Italiano: ogni razza al suo posto).
Ma dopo l’11 settembre, e in coincidenza con gli attentati jihadisti che continuano a scuotere il continente e le sue periferie, le avanguardie dell’apartheid mietono successi elettorali e d’immagine in quasi tutti i Paesi europei.
A decretare il fallimento delle velleità di integrazione, se non di assimilazione, che correvano sotto la pelle dell’Europa occidentale al tempo della guerra fredda. Quando l’idea di Europa – pur nella vaghezza o, forse, grazie ad essa – aveva libero corso. Grazie, appunto, al carattere occidentale di quella formazione geopolitica. Pigmento culturale ormai disperso. Eravamo il continente del Muro, oggi lo siamo dei muri fisici e mentali che dividono questo spazio frastagliato dai cinquanta e più Stati, staterelli e terrae nullius che i geografici russi avevano ragione di appellare Asia Anteriore. E se prima dell’’89 la radice della partizione poteva parere ideologica, le molte fratture attuali sono figlie della paura dell’altro. Del migrante.
Contro di loro si ergono barriere vigenti – tra Grecia e Turchia, tra Bulgaria e Turchia, tra Spagna africana (Ceuta e Melilla) e Marocco – o in costruzione, come l’annunciato muro tra Ungheria (il Paese che per primo aprì uno squarcio nella cortina di ferro) e Serbia. La nostra ipocrisia cognitiva, per cui ci rappresentavamo svettanti al di sopra della mischia universale in quanto spazio civile, segnacolo di pace, Democrazia, progresso, modello di convivenza e di tolleranza, è stata smascherata nel termine di una generazione da due treni di paura: lo spettro dell’invasione slavo/albanese, nei primi anni ‘90, e il timore della penetrazione arabo/islamica, degli inizi del secolo.
Per fedeltà alla retorica europeista, rispondemmo con gli accordi di Schengen, entrati in vigore nel 1995, che ormai includono quasi l’intero ambito comunitario e oltre. Li servimmo al pubblico sotto specie di apertura delle frontiere interne, mentre si trattava di chiudere quelle esterne, affidandone la guardia (a titolo gratuito, s’intende) ai Paesi di frontiera, tra cui il nostro. Equivoco che ha contribuito ad eccitare la reazione alla corrente crisi, spacciata per invasione di orde migratorie che minaccerebbero la nostra civiltà e obbligherebbero a rintanarci nella Fortezza Europa, opportunamente decurtata d’ogni ponte levatoio. E siccome le invasioni esistono per il solo fatto che le crediamo tali, sarà opportuno indagarne origini, profili, conseguenze.
A partire, per quanto possibile, dai dati di realtà.

3. Allarghiamo lo sguardo al mondo. Con un’avvertenza: ogni tentativo di incasellare i flussi migratori in ordinate tabelle e in tipologie perfette è alquanto approssimativo, quando non arbitrario. Masse umane che si muovono sotto i radar delle polizie (e dei demografi) non possono essere identificate con qualche certezza.
E le categorie giuridico-scientifiche che intendono fermare i già incerti dati in contenitori statistici lasciano il tempo che trovano. Sia perché le definizioni variano di Paese in Paese – il mio «irregolare» può essere il tuo «regolare» – sia, soprattutto, per la difficoltà di discernere le motivazioni che spingono gli individui a muoversi.
Tracciare una linea per distinguere il profugo dal migrante economico è operazione spesso abusiva.
Massimo Livi Bacci fissa proprio nella mutazione e nella mescolanza dei fattori di spinta e di attrazione dei popoli in movimento la tendenza della «quarta globalizzazione» in corso. Nel pianeta dai sette miliardi di anime, che le proiezioni immaginano diventare almeno nove di qui alla metà del secolo, il fenomeno migratorio ostenta globalmente quattro tendenze.
A) Cresce l’universo degli umani che vivono in un Paese diverso da quello di nascita: erano 154 milioni nel 1990, mentre nel 2013 se ne contavano 232 milioni. Anno nel quale i migranti rappresentavano il 3,2% della popolazione mondiale (contro il 2.9% di tredici anni prima). Due Paesi da soli ricevevano, nel 2013, un quarto dei migranti internazionali: Stati Uniti d’America e Federazione Russa. Seguiti dalla Germania, con l’Italia all’undicesimo posto.
B) Si espande la famiglia di coloro i quali sono stati costretti a fuggire dalla terra d’origine in cerca di salvezza altrove. I profughi erano quasi 60 milioni nel 2014, in teoria la ventiquattresima Nazione al mondo: 8,3 milioni più dell’anno precedente, aumento mai registrato prima (carte 1 e 2). Il loro numero si aggirava intorno ai 40 milioni nei primi dieci anni del secolo, salvo impennarsi nell’ultimo quadriennio soprattutto a causa dei nuovi conflitti nel Levante siriano, in Ucraina, in Nordafrica e nel Sahel. Gli apolidi sono stimati intorno ai dieci milioni.
C) Se le direttrici di flusso Sud-Nord e Sud-Sud rappresentano ciascuna poco più di un terzo delle migrazioni globali, a ricevere la massa dei rifugiati sono all’86% Paesi «in via di sviluppo» (leggi: poveri), tra cui i «meno sviluppati» (leggi: poverissimi) ne accolgono il 25%. Il principale Paese di ricezione delle persone in fuga dalla guerra e dall’oppressione è la Turchia (1,59 milioni), seguita da Pakistan, Libano, Iran, Etiopia e Giordania.
I tre massimi produttori di profughi sono Siria (3,88 milioni), Afghanistan e Somalia. L’Africa è, dopo l’Oceania, il continente che produce meno emigrazione, non perché scarseggiano i candidati alla fuga da guerra e miseria, ma per carenza del denaro necessario. L’invasione dei profughi è, anzitutto, un dramma interno al Sud del mondo, alla Caoslandia nella quale si concentrano miseria, conflitti armati, traffici clandestini, epidemie e carestie (carta a colori 1). Gli ingredienti per le guerre fra poveri ci sono tutti. Da dove i migranti sono doppiamente vittime: perché fuggono dagli incendi bellici e perché maltrattati o respinti dai Paesi nei quali cercano scampo.
D) L’esplosione delle migrazioni forzate ha una primaria radice geopolitica: la decomposizione degli Stati post-coloniali fra Medio Oriente, Africa ed Europa sud-orientale. Fenomeno recente, rivelato dalle «primavere arabe» e dalle controrivoluzioni in partenza dal Golfo (Arabia Saudita e dintorni), con epicentri nel Siraq (carta 3) – ciò che residua della partizione franco-britannica del Levante e della Mesopotamia ottomana – nel Sahel, cuore dell’ex impero africano di Parigi, e nell’Ucraina, dove sono in gioco le sorti della Russia e della sparsa famiglia euro-atlantica. Secondo la discutibile classificazione degli «Stati fragili» compilata dal Fund for Peace, i Paesi il cui indice d’instabilità è maggiormente peggiorato tra 2014 e 2015 sono, infatti, tutti pertinenti ai tre citati ambiti: nell’ordine, Ucraina, Libia, Siria, Russia e Mali (carta a colori 2).

caracciolo
4. In questo contesto possiamo meglio intendere i flussi verso l’Europa.
Il nostro continente si è trasformato, nel giro di un secolo, da soggetto colonizzatore in obiettivo privilegiato di rilevanti quote dei suoi ex colonizzati. In particolare, dal fatidico 1990, discrimine fra l’ordine della guerra fredda e il non troppo creativo disordine seguente, lo stock migratorio (stranieri più persone nate fuori del Paese di residenza) è cresciuta della metà, sicché oggi comprende un abitante ogni dieci Europei (Tabella 1).
Quota certamente digeribile altrove, dove la mobilità è un valore, meno nella pancia ricca del Vecchio Continente, dove si onora la stanzialità e i pregiudizi razzisti, radicati nella storia, sono acutizzati ad ogni emergenza.
Specie se lo straniero è Musulmano o, comunque, proveniente da culture che noi facilmente associamo all’alterità, alla minaccia. Vige tuttora il paradigma mentale fissato dopo la Seconda Guerra Mondiale dalla britannica Royal Commission on Population: «L’immigrazione su larga scala in una società pienamente stabilita come la nostra sarà benvenuta senza riserva solo se gli immigrati sono di buon ceppo umano e non impediti dalla loro religione o razza da contrarre matrimoni con la popolazione locale e mescolarsi ad essa».
La refrattarietà al migrante esaspera le conseguenze della massima pressione migratoria che abbia mai investito l’Unione Europea. Questa si concentra sui crocevia fra Africa/Asia ed Europa, dallo Stretto di Gibilterra al Canale di Sicilia al fiume Evros, munita frontiera tra Turchia e Grecia (carta 4).
Il Mediterraneo è lo spartiterre, l’Italia la principale passerella fra i migranti e il loro obiettivo privilegiato, l’Europa centro-settentrionale. Attraversando acque e terre euro-mediterranee, dal 2000 ad oggi almeno 1.200.000 «irregolari» hanno bussato alle porte dell’Europa. Nel 2014 furono 280.000, quest’anno, forse, di più.
I profeti di sciagura annunciano che presto si metteranno in movimento anche le 6-700.000 anime concentrate nei campi della Tripolitania. Nelle traversate arrischiate su barche e gommoni di fortuna gestiti dai trafficanti di esseri umani – spesso con la complicità delle autorità locali, ma anche di mafie e imprenditori di casa nostra a caccia di braccia da sfruttare – sono morte, nell’ultimo quindicennio, almeno 25.000 persone: il Mediterraneo è la più grande fossa comune del pianeta. Il transito avviene attraverso i corridoi sud-nord già sperimentati dai mercanti di droga, armi, sigarette o pietre preziose. Si tratta, quasi sempre, delle antiche carovaniere, a spezzare le quali le potenze coloniali si dedicarono nell’’8-900, tracciando con squadra e righello confini insensati, intenibili.
Qui trafficanti e Jihadisti si mescolano volentieri, quando non coincidono. Il viaggio può durare anni e implica l’investimento di migliaia di dollari da centellinare tappa dopo tappa tra passeurs, poliziotti e miliziani che si frappongono fra migrante e meta. Un affare complessivo da svariati miliardi che lega economie informali e circuiti legali, criminali africani ed aziende europee che investono in lucrose meraviglie dell’ingegneria elettronica e militare per filtrare i flussi, tra cui nasi artificiali (sniffers) dotati di selettivo olfatto in grado di snidare i «clandestini» compressi nei camion dei contrabbandieri.
Tre sono i percorsi più battuti dai migranti transmediterranei: l’occidente, il centrale e l’orientale (carte a colori 3 e 4). Cinghie di trasmissione estese per migliaia di chilometri che trasportano uomini, donne e bambini (molti non accompagnati) dal cuore dell’Africa nera e dall’Asia occidentale fino a Berlino, Parigi, Stoccolma o verso rifugi improvvisati e provvisori ovunque possibile.
I tre corridoi meridionali attingono ai rispettivi bacini privilegiati: Africa occidentale, Centrafrica e Corno d’Africa, Levante siriano. Il primo afferisce ai territori compresi fra Senegal, Guinea, Mali, attraversa Mauritania e Marocco per sfociare in Spagna. Nel secondo incrociamo genti in marcia da Camerun, Nigeria, Repubblica Centrafricana miranti alla piattaforma dei porti tripolitani (Zuwāra, Zāwiya, Tripoli, Sabrata) o cirenaici (Bengasi) da dove affrontano la traversata verso l’Italia. Anche il terzo fronte investe gli sbocchi libici, muovendo, però, da Uganda, Kenya, Somalia, Eritrea, Etiopia, Sud Sudan e Sudan, avendo raccolto anche parte dei profughi sfuggiti alla mattanza siro-irachena – dei quali un’altra, montante quota bussa, invece, al confine turco-greco per investire i Balcani puntando, via Serbia, all’Ungheria.
Speciale attenzione merita l’asse sud-nord che collega, via Niger, la Nigeria settentrionale, terra d’elezione della guerriglia di Boko Haram, al Fezzan libico, deserto di nessuno dove, dopo la caduta di Gheddafi, spadroneggiano milizie claniche, narcojihadisti e altri gestori del mercato delle migrazioni.
Siamo in pieno Sahel, baricentro continentale semiarido tra Sahara e savane meridionali, esteso dal Senegal al Sudan. La fascia forse più misera del continente, sconvolta da ricorrenti siccità. Ricca, però, di minerali strategici, come l’uranio, cui attingono soprattutto Francia e Cina. Povera di strutture statali funzionanti, surrogate da precarie forme di autogoverno comunitario e/o per bande, nel contesto di un’economia predatoria fondata sul contrabbando d’ogni genere e merce, per il cui controllo infuriano conflitti locali e regionali nei quali prolifera il jihadismo. Strabordante di gioventù senza orizzonti: la maggioranza della popolazione ha meno di 18 anni. Serbatoio inesauribile di potenziali ed effettivi migranti, molti dei quali confluiscono verso lo hub nigeriano di Agadez, capitale informale dei traffici nordafricani, porta d’ingresso verso il Fezzan e i porti mediterranei dell’ex Libia. Qui si gioca molto del nostro futuro di Italiani ed Europei.
Se ai giovani di questa vasta regione in rapida crescita demografica (+3% all’anno) – analogamente al complesso dei Paesi africani, che dovrebbe superare il miliardo e mezzo di abitanti entro il 2030 e toccare i due miliardi attorno al 2050 – non sarà offerto un ambiente sociale, economico e politico consono alle loro crescenti aspettative, nemmeno asserragliandoci dietro chissà quali fortificazioni potremo fermarne la pressione.
Valga il monito di un ragazzo di Kano, nella Nigeria del Nord: «Non ho soldi, né lavoro, né istruzione. Non posso avere una casa, né formare una famiglia, non credo nello Stato, non credo in niente e nessuno. Prego Dio di lasciarmi andar via o di darmi un’arma per combattere».

5. Angela Merkel non ama l’enfasi. Quando stabilisce che «la questione migratoria è la sfida più grande per l’Unione Europea che io abbia mai visto da quando sono in carica» va presa sul serio. Ma seria non è la risposta europea. Siamo un continente, non uno Stato. Di fronte alla crisi migratoria, ognuno difende il suo particulare.
I Ventotto rinnegano gli ideali umanitari ricamati nelle Convenzioni internazionali, nelle Costituzioni e nelle Leggi che li declinano. Di questi tempi, i visti regolari per lo spazio Schengen sono rari come i quadrifogli nel Sahara. E, anziché assicurare protezione ai richiedenti asilo che ne avrebbero diritto, offrendo loro mezzi decenti per raggiungerci e integrarsi, li rigettiamo nell’indefinita mischia degli «irregolari», esponendoli all’arbitrio di sommarie selezioni. Ognuno con metodi e procedure differenti. I profughi non nascono illegali, siamo noi a renderli tali. Attraverso un meccanismo perverso, nel quale siamo tutti perdenti (tabella 2). Il principio è quello del beggar-thy-neighbor. Volgarmente: scaricabarile.
In politica economica si configura come svalutazione competitiva per conquistare quote di mercato nel commercio internazionale. Nella geopolitica delle migrazioni diventa scaricamigrante. Le regole di questo sport sono iscritte nel Regolamento europeo di Dublino, in base al quale la richiesta d’asilo dev’essere valutata dal primo Paese dell’Unione Europea in cui il fuggiasco mette piede. Incrociando la norma con la geografia, poiché i flussi procedono dalle latitudini inferiori alle superiori, gli Stati comunitari dotati di confini con lo spazio mediterraneo, in primo luogo Italia, Grecia e Spagna, sono esposti all’onere di soccorrere e gestire i migranti. E ad accollarsi l’arduo compito di selezionare coloro i quali, in quanto rifugiati, potranno insediarsi a casa loro. Salvo espellere gli altri verso il Paese di origine, se identificato – in diversi casi, l’equivalente della condanna a morte – o lanciarli nell’orbita della fuga infinita da una terra all’altra, inchiodandoli alla clandestinità permanente.
Risultato: procedendo da nord a sud, ogni socio comunitario, Schengen o non Schengen, cerca di costringere il vicino meridionale a custodire nei suoi centri di detenzione – eufemisticamente battezzati d’accoglienza – i richiedenti asilo e, con essi, il maggior numero possibile di irregolari. Siccome le armi della persuasione non funzionano, si mette mano al ventaglio di rappresaglie. Ad esempio, noi Italiani riduciamo al minimo la sorveglianza nei centri di contenimento dei richiedenti asilo, noti in gergo come hot spots, spingendoli verso l’agognato Nord, dove possono sperare in un welfare invidiabile. Oppure, i settentrionali offrono soldi ai vicini meridionali: tot milioni per tot migranti riportati a casa tua. Ci hanno provato i Francesi con noi, offrendoci fino a cinquecento milioni di euro, rifiutati, dopo qualche incertezza, in un impeto di orgoglio cisalpino. Partecipano al torneo anche le regioni italiane, con Veneti, Lombardi, financo Valdostani, a determinare che la loro barca è piena, restassero quindi gli sgraditi ospiti aggrappati al tacco dello Stivale.
La partita ha i suoi ambiti esoterici fra le mura dell’eurocrazia brussellese, nelle risse verbali dei Consigli europei e nella diplomazia bilaterale segreta fra scaricanti, attenti agli umori del proprio pubblico, meno al destino degli scaricati. E ha la sua poco commendevole messa in scena da Calais alla Sicilia via Ventimiglia.
Con file di poliziotti schierate lungo i famosi confini aperti dell’Unione Europea a proteggerli dagli irregolari che cercano di penetrarli. In attesa che almeno parte di questa massa umana possa essere ripartita, pro-quota, tra i soci umanitari. Ma l’idea della Commissione Europea, sostenuta dall’Italia, sembra essere destinata ad arenarsi di fronte alla resistenza di Francesi e nordici, che non vogliono sentir parlare di obbligatorietà di un onere per loro intollerabile. Ai Paesi euro-mediterranei non resta che rivalersi sui vicini extracomunitari. Lo scaricamigrante procede allora verso la quarta sponda. Il migrante va rispedito, accompagnato, se necessario, da congruo indennizzo monetario. Tornerà, così, al mittente verso le piattaforme di lancio: Libia, Tunisia, Egitto… Le quali sono, però, in tale stato di disordine da rinunciare volentieri all’indennizzo pur di non essere sopraffatte dai migranti di ritorno. Nessuno ama ridursi a Stato cuscinetto del vicino. Il destino di centinaia di migliaia di «irregolari» in attesa di giudizio sembra inchiodarli in fatiscenti strutture prossime ai punti di sbarco.
Universo concentrazionario che richiama tristi memorie. L’ultima cartuccia europea si configura come spedizione navale contro i trafficanti. Sotto la burocratica sigla Eunavfor Med è partita la missione – oggi aeronavale, domani, forse, estesa a forze speciali – per colpire le reti dei sensali di carne umana che infestano il Mediterraneo.
A guidarla, l’orgoglio della nostra Marina, la portaerei Cavour. Dopo aver girato il mondo come una fiera galleggiante, ad esibire primizie e meraviglie del Belpaese, la nostra ammiraglia assume il comando di un’operazione che si propone di mettere fuori combattimento ferrivecchi e gommoni gonfiabili adibiti dai trafficanti al traghettamento dei loro bagagli umani dal Nordafrica al vecchio Continente. Gli stessi ideatori dell’impresa ammettono di non saper bene come procedere, forte essendo il rischio di affondare il naviglio nemico con il suo carico di innocenti. Siamo finiti dentro un ingranaggio distruttivo. Per fermarlo sarebbe necessario un soprassalto di solidarietà europea. La UE non diventerà Stato, certo, ma vorrà almeno concordare un approccio comune, ripartendo non troppo iniquamente sulle spalle degli uni e degli altri un carico comunque sopportabile.
Ma chi, oggi, si sente di scommettere sullo spirito europeo?

6. Jacques Delors, presidente della Commissione Europea quando questa contava qualcosa, sosteneva che l’Europa avanza mascherata. Vero il contrario. Dopo aver indossato ogni possibile mascheratura – verso l’esterno, nell’illusione di apparire agli altri migliori di quanto siamo, ma anche per impedire a noi stessi di capire qualche «mostro buono» avessimo allestito in nome dell’Europa – scopriamo di stare rapidamente arretrando.
Non nella direzione di irriproducibili passati, ma verso l’ignoto. Per ora sappiamo solo che non sarà l’unificazione politica sognata dai padri fondatori. Semmai, qualcosa di simile al suo opposto: la riproduzione di barriere culturali, economiche, financo fisiche, fra gli Stati esistenti e le loro eventuali gemmazioni (Catalogna, Fiandre, Scozia). Forse, ancora per conto della mitica Europa, a salvare i «veri» Europei dal contagio dei «falsi».
La geopolitica continentale corre su un piano inclinato. Chi è troppo prossimo alla frontiera di Caoslandia minaccia di precipitarvi. Italia compresa. Chi si considera paradigma di virtù difende con unghie e denti i privilegi che si è conquistato per restare nell’emisfero della pace e del relativo benessere. A cominciare dalla Germania.
Alcuni pensano o temono l’avvento dell’Europa tedesca. Pensieri e timori impropri. Il metro di Berlino non è, né sarà mai, il paradigma dell’Europa. Perché di Europe, nel pur modesto spazio di questa penisola asiatica, ve ne sono sempre state molte, e altre se ne stanno (ri)formando. E perché la geopolitica tedesca, figlia irriflessa della sua ideologia economica, si nutre dell’ambiente nel quale vive e prospera, assorbendone le risorse senza ripartirne i profitti fra i soci. Esporta deflazione mentre assorbe liquidità.
Per restare stabile, produce e riproduce instabilità. Almeno finché questa non la toccherà. Allora si scoprirà circondata da vicini in tempesta.
E domarli, per salvarsi, sarà molto più difficile. Meccanismo semiautomatico, del quale gli stessi leader tedeschi non sono pienamente consapevoli. Il dramma dei migranti e l’eurotragedia greca sono (anche) figlie di questa compulsione. Il rifiuto nordico della ripartizione dei profughi per quote calibrate equivale all’orrore di quegli stessi attori per la Transferunion, ovvero l’unico modo in cui una sana unione monetaria può funzionare: per trasferimenti solidali e intelligenti, nell’interesse del sistema, non della sua pur dominante parte.
Altrimenti, dall’euro scaturirà il Neuro, divisa riservata alla sfera geoeconomica germanica. E il rifiuto del migrante, declassato a clandestino, darà nuovo slancio all’edilizia muraria – settore che s’immaginava in crisi dopo l’’89 – ulteriormente selezionando il corpo del Vecchio Continente. Amavamo discettare di «Europa gentile». Scopriamo che la nostra gentilezza è carica di aggressività, del genere prodotto dai temperamenti ossessionati dall’ordine. Forse l’Unione Europea sopravvivrà a noi stessi, scheletro senz’anima. Avremo la delicatezza di smettere di chiamarla Europa?


Lucio Caracciolo, direttore di Limes

Rispondi