L’orizzonte morale e lo spettacolo del confine

Per comprendere il ruolo giocato dai media nel gestire un fenomeno – la migrazione – che sfida i confini europei e il nostro stesso senso di identità, basti pensare al diverso grado di visibilità delle morti in mare

Pierluigi Musarò

profilo UniboCon più di 20.000 morti nelle ultime due decadi, il Mar Mediterraneo assurge al triste record di destinazione migratoria più mortale al mondo. Fino a poco tempo fa, però, pochi se ne sono accorti: non esistevano statistiche ufficiali relative alle vittime (se non quelle di “attivisti” accusati di essere “partigiani”) e i media occultavano i cadaveri. Meglio, i cadaveri non venivano mostrati ai e dai media, che si limitavano a riprendere e ad amplificare gli sbarchi dei “fortunati” che ‘clandestinamente’ giungevano sulle nostre coste.

Per comprendere il ruolo giocato dai media nel gestire un fenomeno – la migrazione – che sfida i confini europei e il nostro stesso senso di identità, basti pensare al diverso grado di visibilità delle morti in mare. Tra i tanti naufragi invisibili citiamo “I fantasmi di Porto Palo” – di cui narra Giovanni Maria Bellu – e il naufragio della “Kater i Rades”, la nave albanese speronata dalla Marina Militare italiana nel canale d’Otranto: 300 morti nel primo naufragio, oltre 80 nel secondo. E nessuna visibilità: in quegli anni (1996-97) l’Italia è la Cenerentola della nascente Europa di Schengen, ed è (già) sotto i riflettori per non saper controllare i confini. Accuse che tornano in auge oggi, in riferimento al mancato rispetto del Trattato di Dublino, secondo il quale il Paese di primo sbarco ha l’obbligo di esaminare la domanda di protezione internazionale (leggi: “schedare” e “trattenere” i potenziali richiedenti asilo nel Nord Europa).

Il Mediterraneo inizia a popolarsi di tombe il 3 ottobre 2013, a seguito del naufragio di un barcone al largo di Lampedusa. Più di 360 migranti perdono la vita. Per la prima volta, il Governo italiano decide di mettere in bella mostra i feretri delle vittime, ritualizzandole, rendendole così “degne di lutto”, riconoscendo ad esse lo status di Persone.
Di fronte al tragico evento le reazioni sono unanimi: “È una vergogna” denuncia Papa Francesco; un’“immane tragedia” il commento del premier Letta. Durante la sua visita a Lampedusa, il Presidente della Commissione Europea, Manuel Barroso, si dichiara “profondamente scioccato”, aggiungendo che “un’Unione fondata su valori quali dignità umana, libertà, Democrazia e solidarietà… non può accettare che migliaia di persone muoiano alle sue frontiere” e promettendo che “la Commissione Europea farà tutto il possibile, con i mezzi di cui dispone, per aiutare a cambiare le cose”. (1)

I “mezzi di cui dispone” si materializzano presto: solo otto giorni dopo, un altro naufragio tra Malta e Lampedusa miete 268 vittime. Mentre il mondo guarda con orrore le immagini dei cadaveri avvolti in sacchi di plastica, le autorità italiane proclamano una giornata di lutto nazionale, concedono la cittadinanza italiana onoraria ai morti, e lanciano Mare Nostrum – “operazione militare-umanitaria” nel Mediterraneo – tesa a salvare i migranti e ad arrestare i trafficanti di esseri umani. Al contempo, ma più in sordina, i sopravvissuti vengono rinchiusi nei centri d’identificazione ed espulsione (CIE) e i pescatori che li hanno soccorsi iscritti nel registro degli indagati per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Sul momento ci si è chiesti come potessero le lacrime per la tragedia tradursi in leggi repressive.
Come fosse possibile invocare il rispetto dei diritti umani e, al contempo, l’inasprimento della legislazione sull’immigrazione sino a criminalizzare gli “irregolari”. Forse perché lo status di un essere umano cambia a seconda che vesta i panni della “vittima” da aiutare a distanza o del “clandestino” da respingere nel momento in cui prova a raggiungere le nostre coste? Domande che hanno trovato risposte contraddittorie e mutevoli nel tempo. Racchiudono le ambiguità e i paradossi del fenomeno migratorio tanto più quando lo si focalizza attraverso la lente del discorso umanitario, inteso come un imperativo morale ad aiutare i più vulnerabili, anche se distanti e sconosciuti, e supportato da una struttura comunicativa che diffonde questo imperativo a soccorrere gli altri.

Non a caso, l’operazione è stata definita “militare-umanitaria”, come se il secondo termine, con il suo afflato misericordioso, servisse a legittimare il primo, rivolto a governare le paure di “essere invasi”.
Una repressione compassionevole.
Eppure, gli eventi di Lampedusa e le relative “reazioni umanitarie” non rappresentano un fatto inedito. Sin dai primi rivolgimenti politici nell’area nord-africana, il fenomeno migratorio che ha investito l’Italia è stato caratterizzato da toni apocalittici e allarmistici, attraverso i quali il Governo annunciava “il rischio di una vera e propria emergenza umanitaria, con l’arrivo di centinaia di persone sulle coste italiane in fuga dai paesi del Maghreb” (2), a cui seguivano procedure legislative in chiave securitaria piuttosto che umanitaria.
Le stesse “missioni militari umanitarie” non costituiscono una novità: dal 1999, quando i bombardamenti Nato in Kosovo furono descritti dal Premier britannico come “atto umanitario”, ad oggi, l’azione umanitaria è divenuta, nei fatti, la modalità prevalente e il frame dominante per gli interventi politici dell’Occidente in situazioni di emergenza in ogni angolo del mondo, indipendentemente dal fatto che si tratti di conflitti armati, disastri naturali, epidemie, carestie o altro.
A ciò si aggiunga il contributo delle ONG, le quali, con le loro strategie di marketing e fundraising, hanno contribuito a che l’umanitario diventasse il principale produttore e garante simbolico per le rappresentazioni visive della vittima, di cui i media sono i principali fornitori.
Dov’è, dunque, la novità che Mare Nostrum inaugura? L’aspetto inedito riguarda, piuttosto, l’incrinatura dell’orizzonte morale storicamente definito dal discorso umanitario.
Fino a questo momento, la comunicazione della solidarietà ha viaggiato di pari passo con la comunicazione di un’etica cosmopolita basata sulla condivisione di una “comune umanità”. Al contrario, i fatti di Lampedusa dimostrano non solo il fallimento delle narrazioni umanitarie nella rappresentazione dei più vulnerabili, ridotti a figure senza voce e senza umanità, ma rendono ancora più stridenti le relazioni di potere esistenti tra la “fortezza Europa” e gli altri, indesiderati e non meritevoli di essere accolti.
Mare Nostrum – il cui costo si aggirava sui 9 milioni di euro al mese – ha avuto vita breve, un anno. È stato sostituito da Triton, che costava un terzo in meno, e, successivamente, da EUNAVFOR MED, operazioni più orientate a controllare i confini piuttosto che salvare i migranti. E che ci hanno portato a dismettere le critiche verso Mare Nostrum e a rimpiangerlo, perché comunque capace di salvare 170.000 naufraghi.

Oggi, di Mare Nostrum ci resta la gestione mediatica del confine, la creazione di un immaginario nuovo, intensamente morale, pastorale. In un anno di operazione, Marina Militare e Guardia Costiera hanno prodotto e fatto circolare migliaia di immagini e video in cui la coraggiosa benevolenza dei soldati si sposa con i soccorsi delle ONG e dei medici a bordo. Immagini che ci hanno reso intimi con l’orrore della morte, inaugurando una necropolitica caratterizzata dal doppio frame: securitario e umanitario.
Basti guardare il video ufficiale dell’operazione (3) o la docu-fiction La scelta di Catia: 80 miglia a sud di Lampedusa (4), per avere contezza di questo nuovo modo di governare la migrazione e il disturbo (cognitivo, sociale e normativo) provocato dallo straniero. L’eroismo dei soldati e la vulnerabilità delle vittime – “l’Italia degli Ufficiali che diventano infermieri per far nascere i bambini nelle navi nel Mediterraneo”, l’ha definita il premier Renzi durante la visita di Ban-Ki moon al nostro Parlamento.

Questa spettacolarizzazione del confine militare-umanitario educa e, al contempo, manipola le emozioni, compensa la violenza sociale del regime di controllo con l’afflato solidale del discorso umanitario.
Un linguaggio che lega inestricabilmente valori ed emozioni per legittimare il governo degli esseri umani. Per gestire il paradosso tra commozione e repressione, Mare Nostrum ha creato un paesaggio che definisce e legittima la geografia morale del mondo, nel quale la distribuzione asimmetrica di umanità tra “loro” e “noi” riproduce la relazione gerarchica tra l’“Africano” e l’“Europeo”, che si rapporta ad esso nella sua duplice veste di donatore e agente di controllo. Con il colonialismo ieri, attraverso la gestione delle migrazioni oggi. Eppure, ieri come oggi, i migranti continueranno a partire e a morire, perché – come scrive Rosa Montero – “la storia ha dimostrato che non c’è muro capace di contenere i sogni”.

Pierluigi Musarò, Professore Associato presso il Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia, Università di Bologna; Visiting Fellow presso il Dipartimento di Media and Communication, London School of Economics and Political Science

(1) http://ec.europa.eu/italia/attualita/primo_piano/aff_istituzionali/barroso_lampedusa_it.htm
(2) http://www.repubblica.it/cronaca/2011/02/11/news/maroni_problema_tunisia-12329395/
(3) https://www.youtube.com/watch?v=H7LWma67WAA
(4) http://video.corriere.it/news/la-scelta-di-catia

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