Fingere che non esista la questione è l’errore peggiore

I Curdi, forti della loro identità e omogeneità culturale, sono riusciti a suscitare ostilità in tutti i Paesi dove si trovano. Tuttavia, la priorità della comunità internazionale dovrebbe essere la loro tutela.

Davide Giacalone

Immagine1Ai Curdi tocca una non invidiabile sorte: riescono a far convergere Paesi e regimi fra loro in guerra. I nemici in armi si ritrovano concordi nel puntarle contro i Curdi. È successo troppe volte. Successe durante la guerra fra Iran e Iraq, quando Khomeini disse che non era da considerarsi un peccato uccidere i Curdi (ucciderli in quanto Curdi, non in quanto nemici), mentre gli Iracheni li sterminavano usando i gas. Succede anche oggi: i Curdi che si trovano a Kobane, Siria, poco oltre il confine con la Turchia, combattono contro l’Is, mentre, alle loro spalle, i Turchi prima offrono la spalla ai tagliagole fondamentalisti, poi, quando cambiano posizione e affermano di volerli combattere, come primo provvedimento bombardano i Curdi. Complice, in questo increscioso uso delle bombe, la crescita elettorale, in Turchia, di un partito curdo non estremista, sul quale si sono riversati i consensi di quanti, anche non Curdi, intendono porre un freno allo strapotere di Erdogan.
Ciascuna di queste storie, ciascuno di questi conflitti che, nel passato e nel presente, uniscono i nemici nel desiderio di cancellare i Curdi, possiede le sue specificità. Da conoscere e non sottovalutare. Ma la costante è impressionante: l’ostilità che i Curdi suscitano nei Paesi in cui si trovano. La ragione profonda, sempre riaffiorante, è che si tratta della più vasta etnia (circa 40 milioni di persone) priva di identità e unità statuale, ma forte d’identità e omogeneità culturale. Magari, qualcuno, avendo sentito parlare di Kurdistan, è convinto che almeno un luogo di sovranità esista. Quell’espressione, invece, indica la terra dei Curdi, quella nella quale, nelle condizioni ricordate, vivono, ma non un confine entro il quale s’esercita una loro statualità. Posto che la storia è colma di pagine in cui gli Stati nati da (reale o presunta) unità di sangue e fede hanno generato carneficine, in quell’area non si tratta di far rivivere, fuori tempo, gli ideali nazionalisti di stampo ottocentesco, ma di porre alla comunità internazionale l’urgenza di stroncare la gara a liberarsi dei Curdi e la concorrenza a chi ci riesce prima. Oltre a rappresentare un crimine contro l’umanità, è anche un implicito via libera a forze e regimi a loro volta nemici dell’umanità. A ben vedere, l’incolumità dei Curdi costituirebbe un buon motivo per giustificare interventi in un’area certamente pericolosa nel presente, ma che lo diventerà sempre più, anche nel futuro immediato, se si lascerà correre il sangue rimanendo spettatori. Né, senza intervento internazionale, c’è da supporre che le cose vadano diversamente che non verso i massacri, tanto più che i Curdi, combattenti tenaci, non sono estranei ad esasperazioni estremistiche e componenti terroristiche. Il compito della diplomazia (anche usando l’avamposto degli aiuti umanitari) è quello di distinguere, in modo tale che la sicurezza di un popolo non rappresenti la vittoria di quanti sarebbero subito pronti ad innescare nuovi conflitti.
Come ogni altro agire umano, la politica è sempre figlia del proprio tempo e prodotto della storia. Può essere necessario e conveniente non rivangare troppo i torti e anche i genocidi del passato (si pensi, in un’area immediatamente attigua, a quello subito dagli Armeni). Può essere saggio guardare avanti, ben sapendo cosa sarebbe bello lasciarsi alle spalle. Ma su una cosa si può star sicuri: nulla di buono può essere prodotto facendo finta di non vedere i crimini del presente. Nessun realismo politico può supporre di produrre stabilità e sicurezza se il terreno diventa scivoloso per il sangue che ancora si versa. Se lo si suppone, non è per cinismo, ma per cecità.

di Davide Giacalone,

Editorialista di RTL 102.5 e Libero

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